La vita come vocazione
Incontro del card. Angelo Scola con i giovani - Gorla Minore, 29 gennaio 2012
Tre giovani hanno proposto al Card. Scola le seguenti domande:
1. Emanuele: «Di fronte all’Assoluto che è Gesù Cristo -Via alla Verità e alla Vita- l’uomo deve
capire che ha il dovere di prendere posizione». Così, alla “Redditio Symboli”, lo scorso mese di ottobre, Lei ci aveva invitati ad affrontare con serietà, intelligenza e libertà la questione della ricerca
e della verifica della nostra vocazione. Ci aveva detto che il Signore fa capire attraverso segni inequivocabili a quale stato di vita siamo chiamati. Come riconoscere questi segni?
2. Annalisa: Ghandi diceva che «Lavorare senza fede è come tentare di raggiungere la fine di un
pozzo senza fondo». In questo pozzo senza fondo che sembra essere l’attuale crisi qual è il valore
aggiunto che può portare la fede?
Oggi più che mai, sentiamo il bisogno di rendere ragione della nostra fede nei contesti in cui lavoriamo, studiamo e viviamo il nostro tempo libero. Come farlo?
3. Pietro: Molti di noi svolgono nella parrocchia di appartenenza un servizio in ambito educativo.
Quali strategie suggerisce per un’educazione che sia profondamente e veramente cristiana e dunque umana?
Anzitutto vi devo ringraziare molto perché tutte e tre le pro-vocazioni, nel senso etimologico, sollevate sono belle e preziose.
Partirei dalla questione di Annalisa per poi risalire a quella di Manuele e terminare con
quella di Pietro, perché mi sembra che quest’ordine, questa scansione mi consente di esprimere meglio la mia re-azione, il mio ri-spondere a queste domande che vengono dalla vostra
esperienza e dalla vostra vita.
C’è Annalisa che cita l’immagine molto bella ed efficace di Gandhi, un uomo molto saggio, che dice che lavorare senza la fede (ma potremmo dire vivere senza la fede - che è anche
la dimensione degli affetti, la dimensione del riposo) è come pretendere di raggiungere, di
scavare un pozzo senza fondo. Dopo, Annalisa aggiunge questa domanda: qual è allora il valore aggiunto della fede?
Io contro domando: valore aggiunto a che cosa? Lei l’ha detto subito dopo: in un mondo
così complesso, in una realtà giovanile che è messa alla prova duramente da una società che
si è impostata egoisticamente, nelle mie generazioni e nelle generazioni successive, la questione della fede sembra, da tanti nostri amici, irrilevante.
Se mi sbaglio, correggetemi, ma credo che, più che un’obiezione alla fede, è dominante tra
i vostri compagni il non rilievo della fede. Mi sbaglio? Ed è come dire: a cosa serve se è ancora ferma a quelle cose li? Vai ancora in parrocchia? Ti occupi ancora dei ragazzini? Ma
non capisci che la vita è da un’altra parte?
Ecco, allora la questione del rendere ragione è fondamentale. Come si fa a rendere ragione, o in forza di che cosa io posso rendere ragione.
Cos’ha fatto l’Arcivescovo stamattina? È stato chiamato a compiere uno dei gesti più importanti per una comunità cristiana: consacrare l’altare. Ha cercato di rendere ragione, aiutato
poi anche dal libretto molto ben preparato che seguiva passo passo tutti i gesti simbolici che
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l’Arcivescovo ha compiuto, rendere ragione del perché noi non siamo degli uomini strani o
delle donne strane.
Perché noi, la Domenica e anche in altre occasioni, lasciamo le nostre case e, intorno
all’altare, preghiamo e lodiamo il Signore? Avremmo potuto compiere tutti i gesti senza darne le ragioni. Darne le ragioni aiuta la libertà di chi partecipa a entrare nella realtà.
Per esempio, ha aiutato stamattina, io penso, a entrare nella realtà che la Chiesa siamo anzitutto noi, noi quando ci riuniamo in nome di Gesù, che Gesù è dal punto di vista del culto,
un fattore unico perché nello stesso tempo è sacerdote, ma anche la vittima, perché è lui che
si immola e l’altare. In nessun’altra religione questo avviene.
Insomma il rendere ragione è un’esigenza della libertà, di chi fa un’esperienza e quindi
tende a comunicarla agli altri.
Secondo me, il modo naturale per rendere ragione della fede e quindi non trasformarla in
un pozzo senza fondo, è documentare (testimoniare dovrebbe essere la parola giusta) come la
fede mi rende compiutamente uomo e compiutamente donna. Questo è il modo più efficace
di rendere ragione.
Abbiamo cantato oggi le litanie dei Santi: perché? Perché nella nostra concezione cristiana
della vita è che Gesù donando se stesso innocente sul palo della Croce ha vinto il peccato e
ha vinto la morte. Quindi, anche se l’esperienza della morte e degli anticipi di morte resta
un’esperienza angosciosa – pensiamo all’angoscia di Giuseppe e Maria per aver perduto
momentaneamente Gesù – tuttavia l’esistenza dell’uomo non è più spaccata in due, prima
della morte e dopo la morte. Noi abbiamo invocato i nostri Santi perchè sono in comunione
con noi e i Santi che abbiamo ricordato sono figure umanamente riuscite. Questo è il concetto di santità: una figura compiutamente riuscita.
Allora dare ragioni della fede è documentare uno stile di vita in cui “il valore aggiunto” è
la pienezza di umanità che si vede!
È importante però fare due precisazioni in proposito.
La prima precisazione dovete capirla bene perché può sembrare un po’ troppo radicale. Sì,
io ho desiderio di comunicare la bellezza dell’incontro con Gesù e il fatto che l’incontro con
Gesù documenta uno stile di vita pienamente umano - per esempio mi fa concepire in un
certo modo gli affetti, il rapporto tra il ragazzo e la ragazza, mi fa pensare a un certo modo al
mio lavoro, al mio tempo libero, ecc. - però sono fragile, tante volte mi sbaglio, sono
anch’io pieno di limiti come tutti i miei amici: come faccio con tutti questi difetti a testimoniare, a dire questo stile di vita? Questa posizione è sbagliata. Perché? Perché Dio in Gesù ha
scelto di comunicarsi nella storia attraverso gli uomini i quali, se hanno avuto la grazia di incontrarlo, come voi l’avete avuta altrimenti non sareste qui, restano segnati da lui. Certo,
tendono all’ideale e quindi tendono a vivere con verità senza peccato la loro vita; ma il peccato, se riconosciuto come tale e confessato, non diventa un’obiezione a questo stile di vita.
Questo è il primo nota bene che voglio fare. Quindi, si danno ragioni attraverso uno stile di
vita, una testimonianza. Come vedete nei film il testimone è il terzo che sta tra i due. Il cristiano sta tra Cristo e il fratello e la sorella che incontra. La propria fragilità non è
un’obiezione in senso assoluto alla missione.
Il secondo nota bene è che Gesù stesso ci ha dato un metodo per dare le ragioni. È quello
del “noi”, dell’insieme, della comunità. «Quando due o tre di voi saranno riuniti in nome
mio, io sono in mezzo a loro». Adesso il Signore è qui in mezzo a noi. Mi ricorderò sempre
per tutta la mia vita quando dirigendo un’assemblea di studenti al politecnico di Milano uno
si alzò e cominciò così il suo intervento, (eravamo circa 250-300 - io ero un giovanissimo
prete) si alzò e disse: «Colui che è tra noi…», si è creato un silenzio assoluto! Costui ha per2
cepito la potenza dello Spirito di Cristo presente in mezzo a noi. Noi sottovalutiamo troppo
la comunità. La sottovalutiamo troppo; invece Gesù l’ha posta come condizione per la verità
dell’io.
Infatti, se tu vivi un’esperienza di comunità, hai una grande chance nel dare le ragioni,
perché puoi dire quel che Gesù disse: «Vieni e vedi». «Vieni e vedi», come fece con i due
che gli andarono dietro.
Non dovete smettere di dire questo ai vostri amici; vivere una vita bella tra di voi e dopo,
all’interno di questo, servirà anche tentare un giudizio comune.
Perché tu pensi che la convivenza prima del matrimonio non sia un bene? Rispondi, tirando fuori le ragioni. Perché tu pensi che la famiglia meriti quel nome solo quando è fondata
sul rapporto matrimoniale tra un uomo e una donna, aperta alla vita? Darai le tue ragioni.
Perché dici che dobbiamo essere in favore della vita fin quando c’è un alito di vita? Darai le
tue ragioni. Perché tu che studi la biostatistica e quindi sei affascinata da tutte le meravigliose scoperte della biologia circa la nostra genesi non vedi in questo un’obiezione alla fede? E
così via.
Ma tutto questo deve avvenire dentro uno scambio umano elementare perché gli interessi
primari della nostra esistenza sono legati all’esperienza quotidiana dell’amare, del lavorare,
del riposare. Tutti i vostri compagni fanno questa esperienza. Gesù non è lontano da nessuno
e nessuno è lontano da Gesù. Bisogna che qualcuno lo dica, e questo tocca a voi. Questo è un
punto fondamentale.
Nella vostra comunità dovete continuamente lavorare su questo. Non solo quindi fare riunioni. È il modo di stare insieme! Fate in modo che le domande che vengono fuori
dall’attualità generale circolino, guidati dai sacerdoti, dalle persone più grandi, ma tenete al
“noi”!
In questo senso sono molto contento e ho letto qui sotto “Gruppo giovani decanato Valle
Olona”; solo che vi faccio la proposta di cancellare la parola “gruppo” e di mettere la parola
“comunità” che è molto più completa, perché i gruppi si fanno e si disfano.
Io, nell’esperienza di prete, ho visto sempre questa cosa: si parte entusiasti, ma alla fine
dell’anno uno fa la morosa e non ha più tempo, l’altro va a lavorare a dieci chilometri e…
non ce la faccio più, ecc.
Invece la comunità è solida, come la comunità che abbiamo visto riunita oggi nella Messa.
Da secoli! Mi pare di aver letto dal quinto secolo, qui nella Valle Olona. Nonostante gli anni
resiste, perché è comunità, non un gruppo che si fa e si disfa.
Emanuele ha ricordato un passaggio che io ho fatto alla Redditio, cui tengo molto. Ha
chiesto: «Come si fa a capire in modo inequivocabile i segni della vocazione?»; ma io avevo
detto che per comprendere bene la parola vocazione bisogna leggere bene il significato di
“vocazione cristiana”: l’essere di Gesù Cristo. L’essere, attraverso il Battesimo e i Sacramenti, di Gesù. Questa è la cosa che si fa più fatica a capire, e questo è uno dei motivi di fondo
per cui le nostre cosiddette pastorali vocazionali spesso non raggiungono l’obiettivo, perché
mettono il carro davanti ai buoi. Prima devo capire che tutta la mia vita, ogni istante della
mia vita è una risposta alla chiamata di Gesù.
Cos’è la realtà? Guardiamo a quel che stiamo facendo adesso. La realtà è la trama di un
tessuto, di circostanze. Questa è una circostanza: la nostra assemblea. È una circostanza di
rapporti. In questa circostanza noi realizziamo un rapporto. Voi avete un rapporto stabile tra
di voi, fisicamente rinnovabile. Con l’Arcivescovo può essere tutt’al più mediatico e virtuale,
ma è comunque un rapporto e poi, di tanto in tanto, straordinariamente, può diventare fisico.
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La vocazione è il modo con cui Dio, che ci parla attraverso la realtà, le circostanze e i rapporti mi chiama (vocazione)! Mi chiama a coinvolgermi con lui. Quindi: questo gesto che
stiamo compiendo è vocazione! È un modo attraverso cui Dio ti viene incontro e ti dice: «Tu
giocati, rispondi!». E questo gesto può essere decisivo per tutto il futuro della vita.
La mia vocazione è nata nel 1958 al passo del Falzàrego incontrando delle persone che mi
hanno parlato di Gesù in un certo modo.
Se fossimo dei cristiani seri, noi dovremmo fare questo esercizio: risalire nella nostra vita,
questo vale soprattutto per i sacerdoti ma anche per voi, risalire nella vostra vita al momento
in cui il Battesimo è diventato evidente attraverso un incontro, in una precisa circostanza, si è
attualizzato, e allora non è più rimasto un germe incoato, dal momento che noi grazie a Dio,
lo abbiamo ricevuto da bambini.
Bisogna vivere ogni istante come vocazione. Quella sera, infatti, io ho detto che la vita
stessa è vocazione, è risposta. Non per nulla quando recitiamo la Liturgia delle Ore, nei Vesperi in particolare, incominciamo con il “Responsorio”: è simbolo del fatto che tutta la vita
è risposta a Dio. E Dio ci parla attraverso la realtà e la realtà è la trama delle circostanze e
dei rapporti.
Se Dio ci fa incontrare così è perché ci parla. Se mentre cammini per strada, vedi
un’anziana che cade e vai a soccorrerla, è Dio che ti parla. Attraverso le circostanze ti chiede
di giocarti, chiede la tua libertà.
Questo è il punto fondamentale. Se questo è chiaro, la vocazione allo stato di vita
s’impone da sé. Perché? Perché il Signore ti manda una serie di segni che all’interno della
comunità, dentro un’opportuna verifica, ti consentono di capire nella libertà il passo che devi
fare. Badate che se voi tenete questa posizione, la mia esperienza dice che questa posizione è
di grandissimo realismo.
Tante volte mi è capitato di parlare con ragazzi della vostra età: «Don Angelo, io insomma
ho già 27 anni - soprattutto le ragazze a questa età tendono ad agitarsi - e qui non si affaccia
niente, però io ho la vocazione al matrimonio». Io mi fermo e dico: «Chi è il tuo fidanzato?».
«Ah, non ce l’ho ancora». «E allora non hai nessuna vocazione al matrimonio, perché il matrimonio esige che si abbia incontrato un uomo, se è una donna, e viceversa (bisogna sempre
specificare al giorno d’oggi!), e che sia entrata nella tua vita in vista di una definitività.
La vocazione allo stato di vita è concretissima, i segni vengono lì.
Io voglio fare il missionario in Tanganica perché c’è un prete giù che mi ha aperto la mente e mi preparo, per tre anni studio, ecc. ecc., parlo la lingua… Tutto bello: arriva il giorno
della partenza, i miei amici della Valle Olona mi fanno una bella festa, il mattino dopo i genitori mi portano all’aeroporto, improvvisamente arriva la notizia che per un colpo di stato
sono chiuse le frontiere di quel paese. Non avevi la vocazione per andare in Tanganica!
I fatti, i segni sono lì. Lo stato di vita si coglie da una sequenza di fatti. Se avessi tempo vi
racconterei la mia storia in proposito. Però questa domanda è fondamentale: tenere la questione dello stato di vita all’interno della vita come vocazione. E dopo, si leggeranno i segni
che il Signore manda. E da quei segni lì, con molta naturalezza viene fuori la scelta. Non
senza drammaticità, perché tutte le scelte di stato di vita, essendo per sempre, implicano molta drammaticità.
Concludiamo con la risposta a Pietro: la risposta alla tua importantissima domanda scaturisce dalla risposta alle prime due. L’educazione, diceva un grande pensatore cristiano Maritain (per es. una bella comunità può trovare una splendida attività culturale per coinvolgere,
nel farsi aiutare a individuare due o tre libri di varia natura, un romanzo, un libro di riflessio4
ne, ecc. da leggere e sui quali poi discutere) diceva che il duro dell’educazione è che
l’educazione non è una tecnica, ma un’arte.
Cosa vuol dire? Vuol dire che non esiste tanto una strategia educativa, esiste il gusto e la
passione perché la libertà dei ragazzi che ti sono affidati fiorisca, e perché questo avvenga tu
li devi coinvolgere in un’esperienza di comunità che tu stesso stai facendo.
Infatti un altro limite del concetto di gruppo deriva dal fatto che, normalmente, il gruppo si
imposta per classi. Si fa una comunità e la comunità deve essere libera. Per sé una comunità
deve investire tutte le superiori, in maniera diversa per grado, tutta la realtà post-scolastica,
universitaria, di lavoro ecc. e bisogna vivere una vita e coinvolgere in questa vita.
Se l’educazione è un’arte, il nemico fondamentale dell’educazione è l’artificiosità,
l’artificio, perchè l’artificio è ciò che ammazza l’arte.
È molto semplice: si parte dal loro bisogno (ce ne sono tre che van male a scuola, c’è una
brava signora che ha fatto la maestra oppure sa bene la matematica, si organizza un dopo
scuola per questi tre, si fa un campionato di calcio, si vede un film, si discute su un problema, si affronta la vita... I ragazzi oggi a 12-13 anni cominciano a pasticciare sul piano affettivo: si chiede a un paio di genitori di venire con voi e si parla di queste cose qui. In Italia nel
mondo oggi siamo dentro a questo travaglio).
I ragazzi vogliono capirci qualcosa: perché potrebbe essere intelligente non avere due telefonini o non cambiare il motorino ogni anno? Quel che uno farebbe normalmente nella sua
vita e farlo insieme, a partire dall’amicizia con Gesù!
Per es. per educarsi alla vita come dono, passare qualche ora assieme agli anziani solo per
andare a giocare a briscola in casa di qualcuno o accompagnare una vecchietta in chiesa se
vuol venire. Affrontare i bisogni normali dell’esistenza insieme condividendoli, perché vogliamo imparare un’umanità piena.
Il “per chi” facciamo questo, è il Signore, perché è attraverso la comunità cristiana che abbiamo incontrato, che abbiamo sentito il desiderio di vivere così. Tutte le tecniche vengono
dopo: imparare a fare gli incontri di gruppo, ecc., tutte cose utili, ma non decisive.
Vi sono molto grato di questa possibilità di incontro. Come sempre lo possiamo continuare utilizzando i mezzi più moderni. Voi scrivete e io, nei limiti del possibile, troverò il modo
di rispondere.
Vedere che nella Valle Olona c’è una comunità giovanile di 50 ragazzi/e, per
l’Arcivescovo è una bella consolazione. Non sono mica pochi. L’esito non è mai nelle nostre
mani. Non bisogna scoraggiarsi mai per l’esito. Nelle nostre mani è il “perché”, è il “per chi”
facciamo. È il Signore che si dà nelle nostre mani abbassandosi perché l’Eucarestia è un abbassamento ancora più radicale della croce: Gesù è lì, tutto il giorno.
Vi do la benedizione che vi accompagni. Ragazzi il modo più semplice per far la missione
è raccontare.
Domani uno andrà nel laboratorio: sai ieri abbiamo avuto un incontro in cui sono venute
fuori queste questioni. T’interessa? Non t’interessa? Così con molta semplicità. Ciao. Ci vediamo per la Traditio!
Appunti non rivisti dall’Autore
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