MELVILLE TRANSNAZIONALE
Indiani, italiani e Melville: la lettura come cosmopolitismo
John Bryant*
È ormai da qualche anno che sto scrivendo una biografia dal titolo Herman Melville: A Half Known Life. Come tutti i biografi, seguo la classica precauzione di rito che
prevede di non fraintendere la finzione con i fatti della vita. Tuttavia, la finzione
è parte della vita, e le opere narrative di Melville, spesso autobiografiche, sanno
essere davvero allettanti. Pierre, per esempio, intesse con tale abilità i dettagli famigliari all’interno del tessuto narrativo che c’è da chiedersi se il lettore, a cui è stato
promesso uno squarcio di vita di Melville, non venga al contrario condotto a un
sarcofago che si rivela vuoto, come se quel vuoto simboleggiasse l’inutilità della
distinzione tra fatti e finzione.
Facciamo un esempio: il bisnonno di Pierre, il Generale Pierre Glendinning,
è stato chiaramente ispirato dal bisnonno materno di Melville, il Generale Peter
Gansevoort (Fig. 1). Entrambi i personaggi sono eroi caparbi ma socievoli della Rivoluzione americana. E allora come ci spieghiamo il seguente dettaglio, piuttosto
strano, a proposito del generale descritto nel romanzo?
in uno scontro notturno in territorio infido, prima della Rivoluzione, [il Generale]
aveva annientato due indiani selvaggi usando nei loro confronti le loro teste stesse
come randelli. E tutto questo in un uomo con il carattere più mite di questo mondo
e con gli occhi più azzurri che mai si fossero visti.1
Mi sono sempre interrogato su questo aneddoto. Considerate l’efficienza imperialistica che ci vuole per fare fuori due selvaggi in un colpo solo. Non sembra forse
una scena rubata a Cooper o a qualche rappresentazione teatrale? Eppure, in Pierre
questa fantasia in pieno stile Three Stooges fa emergere un lato nascosto molto sotti-
* John Bryant insegna presso la Hofstra
University. Ha pubblicato libri e articoli su
Melville e altri scrittori dell’Ottocento americano, nonché su questioni di critica testuale. È
direttore di “Leviathan: A Journal of Melville
Studies”. Tra i suoi libri, Melville Unfolding:
Sexuality, Politics, and the Versions of Typee
(Michigan 2008), basato sulla versione “fluida” online da lui curata, dal titolo Herman
Melville’s Typee, Rotunda electronic imprint
(University of Virginia, 2006); Melville and Re-
pose: The Rhetoric of Humor in the American
Renaissance (Oxford 1993), e The Fluid Text: A
Theory of Revision and Editing for Book and
Screen (Michigan 2002). Sta attualmente lavorando a una biografia critica di Melville intitolata Herman Melville: A Half-Known Life
(Wiley) e al progetto della Melville Electronic
Library (MEL). Il presente saggio è stato tradotto da Anna Belladelli.
1. Herman Melville, Pierre o le ambiguità, tr.
it. di Ruggero Bianchi, Mursia, Milano 1990, p. 38.
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le della cristianità con gli occhi azzurri rappresentata dal bisnonno, a tal punto che
ci dobbiamo chiedere se non vi sia un fatto vero dietro a questa scena così slapstick.
Nello specifico: il vero bisnonno di Melville arrivò davvero a scontri corpo a corpo tanto estremi durante il conflitto? Con gli indiani? Di notte? Era un assassino?
Oppure questa storia di lui che fracassa teste in agguati notturni è soltanto una
leggenda di famiglia?
Trovare una risposta a queste domande mi ha portato a vedere la storia della
famiglia Melville in modo più complesso. Certo, il celebre scrittore nacque molto
dopo la morte del bisnonno, avvenuta nel 1812, e da piccolo non ebbe contatti
diretti col generale. Tuttavia, dal momento che il nostro Herman visse gli anni
dell’adolescenza ad Albany, New York, città natale dei Gansevoort, famiglia della
madre, non potè sfuggire alla leggenda del suo bisnonno, noto a tutti come l’Eroe
di Fort Stanwix. Il Generale Peter Gansevoort lasciò un segno indelebile nella coscienza di Melville. La sua città natale venerava quell’uomo; nonostante ciò, la
rabbia adolescenziale verso l’avo non lo abbandonò neanche nella più cosmopolita età adulta, spingendolo altresì a includere il bisnonno sfasciateste in Pierre per
sancire la propria resistenza agli eroi di famiglia. Quell’aneddoto, a prescindere
dalla sua veridicità storica, rappresentò per Melville un modo per venire a patti
con certe macchie di famiglia affrontate per la prima volta da ragazzino, negli anni
in cui cominciava a strutturarsi la sua coscienza politica. Il generale sfasciateste è
una versione del bisnonno che si trasformerà in seguito nel Colonnello John Moredock, il serial killer indiano descritto in The Confidence Man e rifiutato da Frank
Goodman, il “cosmopolita” del romanzo.
Per Melville, il cosmopolita è un alter ego problematico che confuta tutto ciò
che il nemico degli indiani Moredock rappresenta. Ma c’è di più: l’identità cosmopolita assunta da Melville in età adulta ha le sue origini nelle sue letture adolescenziali. Infatti, il fatto stesso di leggere costituiva per lui una forma di cosmopolitismo. Siamo abituati a ritenere questo modo di essere un fenomeno transnazionale:
nella migliore delle sue forme, è l’apertura ai principi umani progressisti al di
là dei pregiudizi locali; nella peggiore, è soltanto un multiculturalismo pesantemente legato a identità regionali che incarnano memorie, differenze e tradizioni.
“Things fall apart”, anche nella ricerca dei diritti universali. Il sano scetticismo di
Melville riconosce non solo l’ideale cosmopolita di una democrazia progressista
che rispetti tutte le culture ma anche i poteri che derivano da tale democrazia, e
che potrebbero negare quell’ideale. Che cosa ci porta a dire che la coscienza cosmopolita di Melville si attivò quando era adolescente? Ci sono tre elementi da cui
potrebbe essere stata innescata: il fatto stesso di leggere, la sua relazione col fratello Gansevoort Melville e la loro passione per due libri, uno locale, l’altro italiano,
che parlano, tra le altre cose, del genocidio dei nativi americani.
Sebbene leggere sia generalmente considerato un momento di comunione privata tra il lettore e il testo, da vivere in solitudine, è anche fondamentalmente un
evento pubblico, ancor più se si tratta di casa Melville (Fig. 2). Sulla scia del Panico
del 1837 e incalzato dalla bancarotta della sua ditta di cappelli, il fratello maggiore
di Herman, Gansevoort, fuggì con la madre e i fratelli dall’animata Albany per
trasferirsi nella sonnecchiosa Lansingburgh.
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A causa di un problema a una gamba, l’uomo d’affari un tempo tanto attivo si
potè godere quindici mesi di invalidità. Herman, come Kory Kory (il “servitore”
che Tommo aveva sull’isola in Taipi), portava il fratello in braccio dalla stanza da
letto al bagno al salotto, dove Gansevoort teneva banco, attorniato da pile di riviste, romanzi, biografie, manuali di storia e quelli che oggi chiameremmo libri di
self-help. Seguiva i fratelli nei loro esercizi di lettura e di scrittura, ovviamente, ma
per lui leggere divenne essenzialmente un modo per aprirsi al mondo, innanzitutto a quello della giurisprudenza, e in seguito a quello della politica jacksoniana.
Il suo esercizio pubblico di lettura intensa rappresentò un modello quotidiano di
impegno per Herman. Le letture di entrambi i fratelli, sia locali sia europee, accesero il loro cosmopolitismo e fecero sì che ciascuno dei due sviluppasse una propria
sensibilità maschile, progressista e universalista.
A un certo punto della sua convalescenza, Gansevoort presentò alla famiglia
un nuovo modo di leggere basato sull’utilizzo di un Index Rerum (Fig. 3). Si tratta
di un libretto composto da pagine vuote, a righe, rilegate in ordine alfabetico, sul
quale si possono annotare frasi memorabili tratte dalle proprie letture del momento. I lettori si creano le proprie aree tematiche, le catalogano in ordine alfabetico
e aggiungono sotto ogni voce citazioni, riferimenti bibliografici e commenti. Per
esempio, un brano sui “Selvaggi” preso da un determinato libro sarà copiato sotto
quella voce insieme alla sua fonte in una delle pagine dedicata alla lettera “S”; brani sugli Indiani andranno a finire nelle pagine della lettera “I”, e così via (Fig. 4).2
Le prime letture a cui Gansevoort si dedicò in questo periodo furono, tra le
altre, Life of Joseph Brant di William L. Stone (1838) e la traduzione inglese di Storia della guerra d’independenza degli Stati Uniti d’America (1807), opera scritta dal
chirurgo, filosofo e funzionario italiano Carlo Giuseppe Botta. Herman osservò
il fratello fare annotazioni quotidiane sul suo Index Rerum, e c’è la possibilità che
l’irreprensibile Gansevoort gliele abbia anche mostrate, soprattutto quelle tratte
da Stone. Quella biografia del condottiero lealista irochese Thayendanagea, noto
come “il mostruoso Joseph Brandt” (scritto con la “d”) fu oggetto di interesse non
solo perché conteneva l’evento militare più importante in assoluto per il Capitano
Peter Gansevoort – la presa di Fort Stanwix – ma anche perché Stone aveva avuto
libero accesso ai documenti personali del Generale Peter per scrivere il libro. Nella
libreria di famiglia dei Gansevoort c’era addirittura una copia autografata, a disposizione di Herman e del fratello.3 Melville parla di quella biografia in una lette-
2. L’ordine alfabetico è in realtà più complesso. Le pagine multiple assegnate a ciascuna consonante sono a loro volta divise in
cinque sottosezioni in base alla prima vocale
che compare all’inizio nella parola: per esempio Sa, Se, Si, So, Su. Seguendo questa logica,
“Savage” (selvaggio) o “Slavery” (schiavitù)
comparivano entrambe sotto “Sa”, mentre
“Indians” (indiani) sotto “Ii”.
3. William L. Stone, Life of Joseph Brant
(Thayendanagea). 2 voll. (1838; rpt.: J. Munsell, Albany, NY 1867). La traduzione italiana
delle citazioni tratte da questo volume è di
Anna Belladelli. La copia autografata della
prima edizione, di proprietà della famiglia,
è conservata nella collezione GansevoortLansing presso la New York Public Library. Si
veda anche Merton M. Sealts, Jr. Melville’s
Reading, University of South Carolina Press,
Columbia 1988, #491a.
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ra a Duyckinck e vi fa riferimento in modo preciso in Pierre, includendo l’episodio
della cena di Brant con il Generale Glendinning, presente nella biografia di Stone.4
La Storia di Carlo Botta (1807), nella sua traduzione in inglese, ebbe almeno otto
edizioni americane illustrate prima del 1838.5 L’autore, uno dei primi promotori
dell’unità d’Italia, voleva scrivere un libro che stimolasse la rivoluzione in Europa,
tant’è che scelse di chiudere il suo trattato storico con un elogio all’abilità dell’America di sovvertire la monarchia senza sconvolgere le istituzioni democratiche esistenti. Adams, Jefferson e Madison ammiravano Botta, e quel libro potrebbe essere
proprio lo stesso che Pierre “di tanto in tanto leggeva” (Pierre, p. 19). Il caso volle che
il nipote di Botta, l’emigrato americano e professore di italiano Vincenzo Botta, abbia
sposato un’amica della famiglia Melville, la regina dei salotti di Manhattan Anne C.
Lynch, e che, secondo Dennis Berthold, abbia pronunciato un discorso in onore di
Garibaldi nel 1888 a New York City, in una cerimonia dedicata all’eroe.6
Ma che cosa avevano questi libri da offrire a Gansevoort e a Herman? La risposta dipende dalla reputazione del bisnonno Peter Gansevoort. L’eroismo del
generale si basava sulla sua strenua difesa di Fort Stanwix nel 1778, atto che impedì l’invasione britannica della Mohawk Valley e che assicurò la vittoria a Saratoga
– ritenuto il punto di svolta della Rivoluzione americana. Meno celebrate furono
le gesta del bisnonno nelle battaglie contro gli indiani nell’estate successiva, quella
del 1779, nell’ambito della disastrosa campagna capitanata dai Generali Sullivan
e Clinton per cacciare gli irochesi dalla regione del Mohawk. Mentre la Storia di
Botta fa un solo riferimento al Colonnello Peter Gansevoort, il libro di Stone ne è
pieno zeppo; entrambe le opere descrivono diverse atrocità commesse dai rivoluzionari ai danni degli indiani. Quello che molto probabilmente si chiesero i due
nipoti fu quanto sangue indiano avesse macchiato le mani del bisnonno.
Dopo che Peter Gansevoort subentrò al comando di Fort Stanwix, Joseph
Brant capitanò numerosi attacchi nella Mohawk Valley contro insediamenti coloniali e indiani. Sebbene si commettessero brutalità da entrambe le parti, i coloni tendevano a dare la colpa agli irochesi. Avvenne lo stesso tipo di escalation
terroristica verso la “ferocia selvaggia” che Melville trovò in Polinesia e che in
seguito stigmatizzò in Taipi. A monte del fiume Mohawk, coloni provocatori costringevano gli indiani a fare guerra col sistema delle rappresaglie, esasperandoli con l’intento di trasformarli in quei “selvaggi” che gli occidentali si aspettavano di trovare, in netto contrasto con le tradizioni assai civili degli irochesi.
Nel 1779, George Washington ordinò a John Sullivan e a James Clinton di porre
4. Lettera a Evert A. Duyckinck, 7 November 1851. Herman Melville, Correspondence, a
cura di Lynn Horth, Northwestern University
Press and The Newberry Library, Evanston and
Chicago 1993, pp. 209-10. Cfr. Pierre p. 10 e
Stone 2.460.
5. Carlo Botta, Storia della Guerra dell’independenza degli Stati Uniti d’America, per
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Nicolò Bettoni, Milano 1824.
6. The Obituary Record: Vincenzo BOTTA,
“The New York Times”, 6 October 1894. To
Garibaldi’s Memory, “The New York Times”
(5 June 1888). Si veda anche Dennis Berthold,
American Risorgimento: Herman Melville and
the Cultural Politics of Italy, Ohio State University Press, Columbus 2009, pp. 20, 263.
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fine agli attacchi degli indiani e di fare lo stesso con la cultura degli irochesi. Come
riportato da Stone nella Life of Joseph Brant, Washington ordinò ai suoi ufficiali
di annientare le Sei Nazioni. Per Sullivan, scrisse: “Gli obiettivi immediati sono
la distruzione totale e la devastazione dei loro insediamenti […] Sarà necessario
rovinare le loro coltivazioni di quest’anno e impedire che si coltivi negli anni a venire”. Continuò: “Non ti renderai in alcun modo disponibile a offrire uno spiraglio
di pace prima che la distruzione totale degli insediamenti sia portata a termine”. E
concluse dicendo che “La nostra sicurezza futura dipenderà […] dal terrore che la
severità del castigo incuterà loro”.7 Sullivan portò a termine con grande spietatezza il compito assegnatogli dal futuro presidente. La fredda strategia di Washington – “distruzione totale” e “terrore” senza alcuno “spiraglio di pace” – costituì un
modello per gli stermini degli indiani, che andarono aumentando sotto l’amministrazione di Jackson e fino agli anni Trenta dell’Ottocento. La grande rivoluzione
del Nuovo Mondo, allora come adesso, era arrivata a tanto: terrorismo e genocidio
per il bene della sicurezza nazionale.
La campagna di Sullivan e Clinton, oggi ampiamente dimenticata, restò senza
dubbio impressa nella coscienza collettiva della giovane repubblica. Carlo Botta
descrisse questo momento buio con parole piene di dolore: “[si combatteva] ardendo le abitazioni, tagliando gli alberi, guastando le biade” (Botta vol. 7 p. 187).
Gli uomini di Sullivan distrussero quaranta villaggi, cancellando ogni traccia di
vegetazione lungo il loro cammino e uccidendo tutti i capi di bestiame che gli indiani non erano riusciti a portare via. Questo episodio sconvolse profondamente
Botta. Quando si trovò a narrare come gli ufficiali di Sullivan fossero riluttanti a
eseguire quegli ordini, lo storico non potè evitare di aggiungere un tocco italiano
al suo commento, precisando che alcuni di essi dissero addirittura che non erano
abituati a esercitare il mestiere del bandito (in italiano nel testo inglese, N.d.T.).
Facendo eco al resoconto storico di Botta, Stone concluse che Washington aveva
scatenato una “guerra di sterminio indetta persino contro gli orti” (Stone 2.25).
Il rapporto ufficiale di Sullivan conferma il genocidio. Non mostrò pietà nemmeno quando i capi irochesi gli offrirono condizioni di pace; non risparmiò i campi di mais degli indiani né per il bene delle sue truppe, ormai
costrette a razioni di cibo dimezzate, né per l’economia della regione. Fortunatamente, quando si diffuse la notizia del primo sanguinoso conflitto, gli irochesi abbandonarono i propri villaggi e si diressero verso il Canada. Quindi, le
truppe di Sullivan attaccarono insediamenti per lo più disabitati, cosa che limitò di molto il numero delle vittime. Tuttavia, con la distruzione dei raccolti
e la morte delle mandrie, migliaia di irochesi depredati di ogni cosa morirono
di fame e di freddo quell’inverno, accampati fuori dalle mura di Fort Niagara.
Botta, però, aveva qualcosa da aggiungere circa le cosiddette “tribù selvagge”
7. The Writings of George Washington from the Original Manuscript Sources, 1745–1799.
Electronic Text Center, University of Virginia Library. Si vedano anche Stone 2.18 e Sherman Williams, The Organization of Sullivan’s Expedition. “Proceedings of The New York State Historical
Association”, 6 (1906), p. 30. La traduzione di queste citazioni è di Anna Belladelli.
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degli irochesi. Secondo il suo resoconto, questo popolo era molto più civilizzato di
quanto si pensasse: sceglievano di costruire le proprie abitazioni nelle aree più salubri e piacevoli; la rigogliosità dei loro campi e dei loro raccolti denotava che l’arte
dell’agricoltura non era a loro ignota; anzi, la presenza di splendidi alberi da frutto
secolari, che crescevano nei moltissimi orti che coltivavano, era indicazione inconfutabile del fatto che tale livello di progresso civile fosse stato raggiunto già da molto
tempo. Ciò che Botta lasciava sottinteso è una domanda che Melville riprenderà,
citando Montaigne, in Taipi: chi è il più civilizzato? L’uomo bianco o il “selvaggio”?
Peter Gansevoort faceva parte delle truppe che, nella campagna di Sullivan e
Clinton, distrussero quegli orti. Non esiste documento storico che testimoni un
suo combattimento corpo a corpo, né in un agguato notturno, né in pieno giorno.
Pare che il bisnonno non avesse una grande sete di sangue. Tuttavia, la coscienza
di Melville riguardo al patimento dei nativi americani potrebbe essersi accesa negli anni dell’adolescenza grazie alle letture del fratello maggiore e alla crescente
consapevolezza del coinvolgimento dell’avo nel genocidio degli indiani. Quello
che i nipoti lessero nei libri di Botta e di Stone non coincideva del tutto con l’immagine eroica tramandata acriticamente nella loro famiglia.
L’ordine delle annotazioni nell’Index Rerum dimostra che Gansevoort lesse
l’opera di Botta prima di quella di Stone. Trascrivendo la descrizione che lo storico italiano fece della campagna di Sullivan e Clinton, Gansevoort scrisse questa
osservazione:
Selvaggi, considerevole avanzamento nella civilizzazione, manifestato negli insediamenti abitativi, negli orti & nei campi della campagna indiana depredata dal
Gen. Sullivan.
Sembra però che la voce “Selvaggi” – mutuata dalla definizione “tribù selvagge”
offerta da Botta – sia stata redatta senza rendersi conto che la spiegazione stessa
di questo termine, parlando della “civiltà” degli indiani e delle “devastazioni”
di Sullivan, ne decostruiva il senso. Quando Gansevoort si accostò alla biografia
di Joseph Brant, pare che sostituì la voce “Selvaggi” con il termine “Indiani”, più
rispettoso. Questo gesto dimostra quanto stesse vivendo un cambiamento di paradigma, da quello patriottico a quello cosmopolita, che coincise con il passaggio
dallo storico italiano al biografo locale.
Dal momento che il resoconto di Botta si incentrava sugli interventi militari
europei e sulle battaglie della Rivoluzione americana, la descrizione delle atrocità commesse ai danni dei nativi americani era piuttosto ridotta. Al contrario, nel
preciso intento di riabilitare Joseph Brant, trasformando “il mostruoso Brandt”
(con la “d”) nell’essere umano Joseph Brant (senza “d”), Stone non si limitò a
raccontare la campagna di Sullivan e Clinton. Quindi, quando Gansevoort lesse
la sua biografia, restò profondamente indignato per un’altra barbarie contro la
nazione indiana:
Indiani, resoconto dell’assassinio infernale degli indiani Moravi sul fiume Muskingum per opera dei bianchi selvaggi americani – l’affare più oscuro che abbia mai
portato disonore al nostro paese (Stone, Brant, vol. 2, cap. 7, p. 217).
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L’incidente descritto, che risale al 1782, è il massacro di 96 nativi americani convertiti alla setta pacifista dei Moravi. Coloni bianchi misero in fila questi uomini
disarmati e, in un modo che ricorda molto l’episodio delle teste fracassate raccontato in Pierre, li trucidarono a colpi di mazza mentre quei poveretti li pregavano di
essere liberati. L’annotazione di Gansevoort sul suo Index Rerum costituisce al contempo un riassunto e un giudizio personale. Innanzitutto, perché mette insieme
le parole “oscuro” e “affare”, che Stone aveva utilizzato in due punti diversi del
racconto. Poi, perché sintetizza il commento dell’autore, che recitava “gli uomini
bianchi – non gli indiani – dovrebbero essere marchiati con il nome di selvaggi”,
trasformandolo in un’espressione molto audace, ovvero “i selvaggi bianchi”. Infine, perché aggiunge parole sue: “infernale” e “disonore”.
L’Index Rerum permise a Gansevoort di catalogare le proprie letture e tenere
annotate con ordine le proprie osservazioni. Dimostra anche lo sviluppo della sua
coscienza politica in un periodo molto ricettivo della sua vita. Bloccato dalla parte sbagliata dell’Hudson, lontano dai centri del potere, in fase di recupero dalla
depressione e dal dolore per i propri fallimenti, addirittura portato in braccio di
qua e di là dall’amorevole fratello, l’invalido Gansevoort Melville sviluppò una
coscienza politica progressista grazie al suo modo di leggere cosmopolita. Ebbe
modo di assorbire conoscenze su due fronti: da un lato, la storia della Rivoluzione
americana scritta da un italiano per gli europei – ciononostante molto apprezzata dagli americani – gli fece conoscere la risonanza universale di quel genocidio
razziale; dall’altro, il resoconto più circoscritto di Stone, scritto per gli americani
e incentrato su un personaggio noto in tutto il mondo, gli portò il genocidio in
famiglia, praticamente in casa. Per certi versi, il fatto stesso di leggere era un atto
cosmopolita. Nel suo salotto di Lansingburgh assorbiva verità liberali sui selvaggi
e sui civilizzati, estrapolandole da testi locali ed europei, sintetizzandone le argomentazioni con espressioni piene di indignazione, a cui si aggiungeva lo sgomento
per il fatto stesso di avere ignorato fino ad allora tali abominevoli fatti. Come lettore, viaggiava con la mente e fuggiva da casa per riuscire a sentirsi “a casa in ogni
luogo” (per citare la definizione che Johnson dà di “cosmopolita”) in un universo
concettuale nuovo e progressista.
Ma anche Herman leggeva in quel modo? Da quanto si evince dai riferimenti
tratti da Botta e da Stone presenti in Pierre, anche lui ebbe una qualche forma di
conoscenza diretta di quelle opere. E dovendo portare in braccio il fratello in continuazione, non poté certo sottrarsi a un precettore tanto persistente, opponendo
un po’ di resistenza, come tutti i fratelli minori di questo mondo, ma allo stesso
tempo provando una grande ammirazione, sognando anche lui di fuggire verso
l’età adulta e verso il mondo là fuori, al di là dello Hudson, al di là dell’Atlantico. E
benché anche il suo modo di leggere fosse cosmopolita, per lui i gravi fatti appresi
da Stone circa il genocidio degli indiani ebbero anche l’effetto di riportarlo alla
storia della propria famiglia e a quel bisnonno che all’improvviso non sembrava
più tanto eroico. Aveva davvero sparso sangue di civili indiani in quell’estate del
1779? Oppure si era limitato a calpestarne i raccolti e a bruciarne gli orti secolari?
Aveva forse portato il terrore a una popolazione con l’intento di distruggerne la
cultura? Quell’estate di combattimenti l’aveva reso un “selvaggio bianco”?
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Queste domande restarono latenti per tutta l’adolescenza di Melville. Con
Pierre l’autore rivisse quegli anni giovanili, giocando a torturarsi con la distruzione cripticamente ironica del patriarca di famiglia. L’episodio del Generale Pierre
Glendinning che fracassa il cranio a due indiani sbattendone le teste una contro
l’altra avrebbe potuto essere accaduto al nonno, anche se probabilmente non fu
così. Inoltre, nel romanzo si dice che questo aneddoto di fantasia era successo prima della rivoluzione, non durante, in modo tale da distogliere volutamente la nostra attenzione dalla campagna di Sullivan e Clinton del 1779 e ridirigerla verso
battaglie a cui il bisnonno vero di Melville non prese mai parte, nascondendo così
una parte già oscura della vita dell’avo dietro un passato grottesco e destoricizzato. Qual è il motivo di questo doppio allontanamento, che richiama tanta attenzione su di sé? È ovvio che l’eroico bisnonno, vestito come Washington e ritratto
niente meno che da Gilbert Stuart, avesse le mani sporche di sangue. Ma sono
quelle le mani che hanno fatto l’America. E quali mani avranno fatto Herman? In
Pierre, Melville ripercorre la sua rabbia adolescenziale, rielaborandola sulla base di
due eventi concomitanti: la sua crescita verso il cosmopolitismo e l’insorgere dei
dubbi sulla figura del bisnonno.
Se Peter Gansevoort fosse stato un assassino di indiani, su quante generazioni
sarebbe ricaduta la colpa di quel genocidio? Dopotutto, come conclude il narratore di Pierre, ricorrendo come al solito a una metafora fluviale, “un corso d’acqua
[potrebbe] essere inquinato dalle sponde lungo le quali fluisce” (Pierre, p. 119). Può
forse un cosmopolita tradire l’umanità? C’è la possibilità che anche lui, il nipote
Herman, sia un selvaggio bianco? Nel lontano 1838, un ragazzino di diciannove
anni stava appena cominciando a imparare.
Fig. 1. Generale Peter Gansevoort. Ritratto di Gilbert Stuart.
Fig. 2. Casa della famiglia Melville a
Lansingburgh, NY.
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Fig. 3. Index Rerum di Gansevoort Melville, Berkshire Athenaeum. Fotografia pubblicata
per concessione di Thomas Zlatic.
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Fig. 4. Voci “Schiavitù” e “Selvaggio” all’interno dell’Index Rerum di Gansevoort Melville.
Fotografia pubblicata per concessione di Thomas Zlatic.
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