Sergio Zagni Camera
La mia gioventù, una scelta di libertà
Memorie di un partigiano bolognese nell’Appennino ligure
Prefazione di Atos Bignami
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Sergio Zagni Camera
La mia gioventù, una scelta di libertà
Memorie di un partigiano bolognese nell’Appennino ligure
Prefazione di Atos Bignami
A cura di SensoLato – Officina letteraria di Schiavo Carlo
Stampa: maggio 2010 presso la Grafica Editrice Romana, Roma
Progetto grafico, impaginazione e copertina: Massimiliano Colletti
Le foto alle pagine 55, 56, 58, 59, 60, 95 appartengono
a Szabo Judit Castagnino e sono pubblicate
per sua gentile concessione.
SensoLato vuole ringraziare inoltre l’editore De Ferrari
per l’aiuto nella ricerca del materiale fotografico.
Un ringraziamento particolare a Marco Baleani
della casa editrice Quodlibet.
ISBN 978-88-905042-0-4
Con il contributo del Comitato Provinciale della Resistenza
di Bologna
Quest’opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons
Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported. Per leggere
una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-ncnd/3.0/
o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300,
San Francisco, California, 94105, USA.
Prefazione
All’inizio dell’estate 1978 siamo partiti, io e
l’amico Sergio, alla ricerca di luoghi e persone da lui
conosciuti quando era partigiano sui monti liguri.
Ho avuto così modo di rivivere, passo passo
con lui, tutto quanto mi ha sempre raccontato.
A Varese Ligure ci siamo fermati a chiedere
notizie del calzolaio che riparava le scarpe sue e
dei compagni. Un anziano benzinaio ci ha fornito indicazioni preziose, spiegandoci come raggiungere la sua vecchia casa. Ci siamo così ritrovati a bussare alla sua porta. Ha aperto una
signora che dopo averci guardato un attimo negli occhi si è letteralmente gettata nelle braccia
del mio amico gridando: «Sergio!», e lui: «Maria!».
Dopo più di trent’anni, pur avendone all’epoca
una decina, immediatamente lo ha riconosciuto!
Era questa la più grande delle tre fi5
glie di Giacumotto, calzolaio di Comuneglia, che Sergio aveva tenuto in braccio tante volte, così come le sorelline più piccole.
Il loro papà era deceduto poco tempo prima
del nostro arrivo, ma la moglie era ancora in vita.
Giunti da lei, che viveva poco distante in casa
di un’altra figlia, si è ripetuta la medesima scena.
Una giornata indimenticabile: assistere, poter testimoniare e filmare questi incontri mi ha emozionato e molto arricchito. In seguito ci siamo
recati nei luoghi teatro di combattimenti e imboscate, rendendo omaggio ai compagni caduti della Divisione Coduri, alla quale Sergio apparteneva.
Questo scrigno colmo di vita vissuta, di avvenimenti a volte tragici a volte belli, di orgoglio in difesa
di se stessi e della Patria, non poteva essere dimenticato. Per questo motivo ho convinto “Camera”,
nome di battaglia di Sergio, a scrivere le sue memorie, rivolte a quanti, nel loro cuore, amano la Libertà.
Il mio compito è stato soltanto quello di
aiutare l’amico nella stesura di questo piccola ma per noi importante opera. Insieme abbiamo controllato la grammatica e cercato
chi ci realizzasse materialmente il volumetto.
Desidero infine rivolgere un saluto caro alla
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moglie di Sergio, Zebina Cesari, da tanti anni
al suo fianco e per me una seconda mamma.
Bologna, gennaio 2010
Atos Bignami
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Introduzione
Il mio nome è Zagni Erminio, meglio conosciuto
come Sergio. Sono nato a S. Pietro Capofiume, Comune di Molinella, il giorno 28/12/1925.
Paternità Armando, nato ad Argenta il 17/12/1901,
così come mia mamma Tacchini Pasquina, nata il
6/01/1905. I miei genitori erano molto poveri e facevano i braccianti a giornata. Io ero il più grande di
sei figli, quattro maschi e due femmine. Nel periodo
della guerra che va dal 1939 al 1945, per avere diritto
ai generi alimentari, il podestà del Comune, di nome
Castellari (fascista), rilasciava la tessera annonaria.
Mia madre si alzava il mattino presto per mettersi in
fila davanti al municipio. Come lei molte altre mamme chiedevano un buono valido per un po’ di latte
o di farina con cui sfamare i loro bambini. Essendo
il più grande, la aiutavo a spigolare patate, cipolle,
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granoturco, ecc. Il cibo era molto scarso e le bocche
da sfamare, tante! I pochi soldi guadagnati dai genitori non erano sufficienti. Si faceva la spesa segnando
l’importo sul libretto, in attesa di saldare il conto una
volta incassata qualche giornata di lavoro.
Avevo appena undici anni quando mio padre prese un po’ di terreno a terzieria. La sua occupazione
principale, però, era sempre quella di bracciante, per
cui io, nel periodo delle vacanze scolastiche, andavo
a lavorare nella tenuta al posto suo. Questo terreno
era situato in località Valle Nuova, nella frazione di
Marmorta, distante dalla nostra abitazione quindici
chilometri. Con me veniva anche la nonna materna, per cui, verso le sette di mattina, la caricavo sulla
canna della bicicletta per recarci insieme al lavoro. Al
termine della giornata, sempre con la nonna sul «cannone», rifacevo lo stesso percorso. Quelle erano le
mie vacanze scolastiche!
Intanto il tempo è passato e all’esame di quinta
elementare sono stato promosso. Per forza di cose
ho dovuto lasciare gli studi e dedicarmi completamente al lavoro nel nostro terreno a terzieria e anche
per la proprietà.
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I
Nel 1942 mio padre viene richiamato nell’esercito,
essendo della classe 1901. Potete immaginare in quali
condizioni ci siamo ritrovati, noi tutti, causa la sua
partenza. Ho diciassette anni e mi devo addossare la
responsabilità di prendere il suo posto! Vi è il forte
sospetto che lo abbiano inviato militare al posto di
uno dei loro, perché non ha mai preso la tessera del
Partito Fascista! Fortunatamente esiste una legge che
prevede l’esenzione dal servizio per quanti hanno una
famiglia numerosa. Dopo circa cinque mesi, la domanda che abbiamo inoltrato viene accolta, ottiene
il congedo e ritorna a casa. Vederlo arrivare, per noi
ragazzi e per nostra mamma, è una gioia immensa.
In questo periodo sono stato assunto in risaia come
operaio e per la famiglia questi pochi soldi sono un
aiuto prezioso.
Nell’anno 1943 cade il governo fascista e l’otto
settembre re Vittorio Emanuele III e il generale Ba11
doglio formano il nuovo governo. Dopo l’accordo
per la resa sembra che la guerra sia finita. L’esercito
italiano, però, è allo sbando e i tedeschi ne approfittano per impadronirsi dell’Italia. Il re ed i suoi collaboratori, invece di prendere in mano la situazione e
lottare, fuggono! I nostri soldati, rimasti senza guida,
abbandonano le armi e cercano di fare ritorno alle
loro famiglie. Molti vengono però arrestati e deportati
in Germania nei campi di concentramento. Nasce la
Repubblica Sociale Italiana, denominata Repubblica
di Salò. Da questo momento i Fascisti emanano leggi
speciali allo scopo di continuare la guerra contro gli
Alleati, in accordo con l’Esercito Tedesco. Il popolo
è diviso, ma la stragrande maggioranza è stanca di
guerra, bombardamenti e distruzioni. I giovani militari che riescono in qualche modo a raggiungere le
loro abitazioni si nascondono e iniziano a organizzarsi in gruppi partigiani.
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II
Una mattina vedo, in piazza ad Alberino (S. Pietro Capofiume), un manifesto dove sta scritto che la
classe 1925 si deve presentare al distretto di Bologna
entro il 1° dicembre 1943. Per quanti non si presentassero, al loro posto verrà prelevato un famigliare, firmato: Giorgio Almirante e generale Graziani.
Siamo a metà del mese di ottobre del ’43 e non ho
nessuna voglia di presentarmi al distretto. Vengo a
sapere, tramite mia zia Maria, che suo fratello, Cleo
Bonora, abitante ad Ospital Monacale, cerca ragazzi
di leva per conto della Todt.
Questa organizzazione, appartenente all’esercito
tedesco, si occupa della costruzione di strade, baracche, postazioni militari, ecc. Tutti coloro che ne fanno parte vengono considerati militari a tutti gli effetti. Mi presento pertanto a casa sua e fornisco i miei
dati personali. Lo zio dice che sta formando un gruppo di una decina di ragazzi come me da mandare a
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Montepiano. Nostro compito sarà quello di costruire
una strada. Questo paese si trova ai confini tra Emilia
e Toscana. Dopo pochi giorni vengono a prelevarmi
da casa con un camion e ci portano tutti là. Al nostro arrivo notiamo molti altri giovani come noi che
sono già all’opera. A questo punto ci fanno scendere, ci muniscono di pala e piccone e quindi veniamo
accompagnati in una baracca adibita ad ufficio. Di
nuovo, ad uno ad uno, diamo le nostre generalità. Al
termine della procedura, lo stesso tedesco che ci ha
preso in consegna all’arrivo ora ci accompagna nel
punto in cui dobbiamo iniziare a scavare; segue un
comando secco: Arbaiten! (lavorare!). È armato e per
qualsiasi necessità è a lui che dobbiamo rivolgerci;
aggiunge anche di comportarci bene, perché siamo
militarizzati. Per noi gli ordini sono ben precisi: in
caso di disubbidienza, sparare!
Dopo una decina di giorni, un mattino arrivano
due graduati tedeschi a bordo di un’automobile con
tanto di autista e di scorta armata. Vengono da noi
e chiamano Adolfo Malacarne, poi Salandini, poi io,
quindi mio cugino Zagni Angelo e di seguito tutti gli
altri del nostro gruppo. Ci dicono di prendere le nostre cose in fretta, che si parte per Lucca in Toscana.
Dopo circa un’ora di viaggio in camion arriviamo
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nei pressi del paese e ci addentriamo in un grande
giardino. L’automezzo si ferma, scendiamo ed entriamo in una casettina adibita a dormitorio. Al piano di
sopra, oltre a diversi mobili, una decina di posti letto,
in parte a castello e in parte singoli. È quasi buio e
chiamano per la cena. Quando scendiamo al piano
terra ci troviamo di fronte due militari armati e un signore in borghese. Una volta raggruppati, lui in testa
ed i militari al nostro fianco, passiamo in una grande
sala arredata con mobili di pregio. Siamo in un edificio adiacente a una grande villa, sede del comando tedesco. Oltre al nostro, ve ne sono altri occupati
da militari, operai e servitori. La cena è composta da
pasta condita, coniglio arrosto, acqua, vino e ottimo
pane bianco. A Montepiano si mangiava una brodaglia fatta con la cucina da campo e per secondo un
po’ di burro e marmellata. Questa di oggi è una novità inattesa ed assai gustosa! Al termine della cena avvertono di tenerci pronti per le sei del mattino dopo.
Non fanno sapere quale sarà la meta, soltanto che
dovremo montare delle baracche.
Alle sei in punto giunge l’autocarro con due militari armati di Maschinenpistole. Noi sediamo lateralmente e loro con le spalle rivolte alla cabina del camion per controllarci. Arrivati a Pisa scorgiamo la
torre pendente con la cattedrale e, poco lontano, la
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stazione ferroviaria. Proseguiamo ancora per un paio
di chilometri e alla nostra destra vediamo un grande parco alberato con all’interno una grande villa signorile. La scritta “Villa San Rossore” ci indica che
questa è la residenza del nostro Vittorio Emanuele
III re d’Italia. Come già detto in precedenza, il re era
fuggito con i famigliari e quanti avrebbero dovuto
organizzare la resistenza contro i tedeschi, gli stessi
che ora occupano la sua dimora. Con l’automezzo ci
inoltriamo all’interno del parco, per poi fermarci davanti a tre baracche di legno. Da una di queste escono tre soldati tedeschi che ci prendono in consegna
e uno di loro fa cenno di seguirlo. Entriamo in un’altra baracca molto spaziosa, con un tavolo al centro e
delle panchine ai lati. Addossati a una parete vi sono
cinque letti a castello e ci rendiamo conto che questo
sarà il nostro nuovo alloggio. Un militare ci fa capire
di sistemare in fretta le nostre cose e di uscire.
All’esterno notiamo una fila di pannelli in legno
pronti per essere assemblati; diverranno tante baracche. Questo sarà il nostro lavoro. Addetti a questo
compito siamo in dieci, sorvegliati da cinque militari
più l’autista, tutti armati. A pranzo il menu è composto da pane e mortadella, un pezzetto di formaggio di
pecora e una mela a testa; da bere una birra ciascuno
e acqua. Siamo sufficientemente sazi, la pausa dura
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un’ora e si riprende il lavoro. Quattro sorveglianti
giocano a carte, gli altri due ci osservano.
A sera termina la nostra prima giornata lavorativa. Il graduato tedesco avvisa tutti che si torna alla
villa di Lucca per cenare e pernottare, al contrario
di quanto pensavamo all’inizio, perché la cucina da
camion non è ancora stata montata. Saliamo sul campo sempre con i nostri «angeli custodi» e arriviamo
a destinazione quando il buio è inoltrato. Per cena
ci attendono brodo di verdura, fette biscottate, un
bel pezzo di formaggio grana, un misto di affettati e
una mela a testa. Al momento di ritirarci per andare
a dormire, chiediamo il permesso di scrivere alle nostre famiglie. Fortunatamente viene accordato, ma il
recapito dovrà essere quello del luogo di lavoro, cioè
Villa S. Rossore. Un profondo silenzio regna nella
camerata; una parte di noi scrive e l’altra dorme.
Il mattino seguente alle sei sveglia e, una volta
giunti sul posto, riprendiamo il montaggio delle baracche. Durante il tragitto ci siamo anche fermati ad
imbucare le lettere scritte durante la notte.
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III
Dopo pochi giorni, con mia enorme sorpresa,
vedo arrivare mio padre e mia zia Maria a piedi. Appena li scorgo, corro dai soldati di guardia spiegando
chi sono quelle due persone e il «capo» tedesco mi
concede un’ora di tempo per stare con loro. Non so
descrivere la commozione nel vederli! Chiedo subito con quale mezzo sono arrivati. Mi dicono di aver
fatto il viaggio in treno da Bologna a Pisa e mentre
parlano si piange e si ride. Spiegano che, usciti dalla
stazione di Pisa, hanno chiesto a un signore come
arrivare da noi e gli ultimi due o tre chilometri se li
sono fatti a piedi. È tanta la felicità di vedermi che
non sentono nemmeno la stanchezza. Parliamo di
tante cose, dei famigliari e degli avvenimenti riguardanti il mio paese, Alberino. Dopo aver ricevuto da
loro tante notizie, chiedo dei miei amici più intimi,
anche loro si sono presentati al distretto militare? La
risposta di mio padre è che molti lo hanno fatto, ma
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i figli dei fascisti no, ognuno di questi ha trovato il
modo di essere esonerato! A questo punto mi viene una grande rabbia e dico che i loro genitori sono
quelli che hanno voluto la guerra fondando la Repubblica di Salò. Non contenti di avere portato l’Italia alla catastrofe, se ne stanno belli e tranquilli a casa,
al calduccio con i loro ragazzi! A noi, del ceto più
povero, il compito di rischiare la vita e di compiere,
assieme ai nostri famigliari, sacrifici inauditi.
«Armiamoci e partite!», così ragionano loro!
Il tempo a noi concesso è scaduto e con tanto
dispiacere dobbiamo salutarci; un forte abbraccio,
dopodiché si incamminano ed io riprendo il lavoro.
Mentre svolgo le solite mansioni penso ai figli dei
fascisti con i quali sono cresciuto e con i quali sono
andato a scuola. Li vedo a tavola con i loro famigliari
accanto al focolare e nel loro caldo letto. Noi, al contrario, qui, obbligati a lavorare e guardati a vista da
stranieri come fossimo delinquenti. Persino quando
ti senti i bisogni corporali devi chiedere il permesso e
anche lì sei guardato a vista! È una cosa insopportabile, una vergogna, e mi dà un gran fastidio.
19
IV
Intanto i giorni passano, viene sistemata la cucina da campo e non si va più alla villa di Lucca. In
una baracca ci siamo noi e in un’altra i soldati che
ci fanno la guardia giorno e notte. Siamo ora a metà
novembre 1943. La rabbia cresce dentro di me come
un pane quando lievita e inizio a pensare seriamente di disertare e tornarmene a casa. Tengo sempre
pronta la valigia, tacendo le mie intenzioni agli altri
compagni. Nel contempo spio il comportamento dei
militari di guardia, in particolare di notte. Il gabinetto
è posizionato all’esterno, a poca distanza dalle due
baracche. Ogni tanto, tra le due e le tre di notte, esco
con la scusa del mal di pancia per verificare i movimenti della sentinella. Di norma se ne sta seduta davanti al suo fabbricato, a volte si appisola, altre mi segue. Visto il suo comportamento, decido di tenere la
valigia accanto alla porta, pronta per ogni evenienza.
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Alla quarta notte la sedia è vuota. Piano piano,
prendo tutti i miei effetti personali, giro sul lato della
nostra baracca e poi nel retro. Ascolto attentamente... Non si ode alcun rumore. Anche se la sentinella
ora dovesse uscire, non potrebbe più vedermi. Con
la massima circospezione e senza fare alcun rumore
mi allontano sino a giungere in prossimità della pineta. Aiutandomi con l’ausilio delle piccole luci delle
casupole, trovo la stradina che conduce alla strada
principale. Non ho tanto cammino da percorrere per
giungere alla stazione; procedo velocemente, così da
essere là prima dell’alba. Finalmente ci sono; non entro e avanzo costeggiando un muretto sormontato
da rete metallica. Cerco un varco per poter passare e
lo trovo, la rete è stata tagliata e risistemata alla meglio. Passo di là proprio nel momento in cui giunge
un treno merci che si ferma a poca distanza da me.
È quasi giorno e noto un ferroviere che controlla le
ruote dei vagoni, alza lo sguardo e mi vede pure lui.
Mi avvicino con la valigia in mano e chiedo se quel
treno è diretto a Bologna. Dice di sì, ed io rispondo:
«Meno male!». Vedendomi molto emozionato e con
la valigia, chiede se sono un militare che ha disertato.
Rimango interdetto e dice di fidarmi, perché ha già
aiutato altri come me a fare ritorno a casa.
Il ferroviere fa cenno di seguirlo e mi accom21
pagna in prossimità di un carro. Mi fa entrare nel
casottino al cui interno c’è la leva del freno a mano,
dicendo che starò un po’ scomodo ma al sicuro. Aggiunge inoltre che passerà a bussare quando il treno
partirà e mi dà le indicazioni per quando arriverò a
Borgo Panigale, poco prima di Bologna. Lì dovrò
scendere senza entrare in stazione e costeggiare la
ringhiera fino a trovare un passaggio che porti sulla
strada per Bologna.
Tutto procede bene e seguendo alla lettera le sue
raccomandazioni mi ritrovo a camminare tra la gente
verso il centro della città. Avanzo cercando di non
rimanere isolato e sperando di non incontrare pattuglie tedesche o brigate nere. Con tanta ansia e il
cuore che batte forte giungo finalmente al quartiere
San Vitale. Qui abitano tre sorelle di mio zio Paolino,
le conosco bene e a loro voglio chiedere aiuto. Sono
quasi le due del pomeriggio e ho molta fame, non
tocco cibo da ieri sera a Villa San Rossore.
Ecco la loro casa; suono il campanello, si apre una
finestra, mi riconoscono subito e mi fanno entrare.
Chiedono come mai mi trovi lì e se ho pranzato. Rispondo di no e riassumo in breve la mia avventura.
Alquanto preoccupate, offrono ciò che hanno sotto
mano, vale a dire spaghetti rimasti da mezzogiorno e
due uova al tegamino. Mentre si scalda la pasta conti22
nuo il racconto e una volta riempita la pancia inizio a
pensare a cosa fare ora. Sin qui sono stato fortunato,
ma il problema è quello di raggiungere Alberino, distante più di trentacinque chilometri. Domando alle
zie se hanno una bicicletta da prestarmi, dicono che
in cantina ce ne sono due e che una la posso prendere. Consigliano di rimanere a dormire, in quanto
il buio arriverà presto, ma non vedo l’ora di essere a
casa mia e parto quasi subito.
Sono le quindici, siamo nel mese di novembre e
le giornate sono corte, però conosco bene le stradine da percorrere e tra poco gli operai usciranno
dalle fabbriche. Mi confonderò con loro e farò in
modo di essere a destinazione prima del coprifuoco. Dopo aver salutato e molto ringraziato, mi metto in viaggio. Procedo più celermente possibile, il
buio avanza e il batticuore aumenta, forse più per
l’emozione che per la fatica. Penso al momento in
cui i miei famigliari mi vedranno. Con il cuore in
tumulto e le gambe che non le sento più, eccomi
finalmente qui a bussare alla porta.
Viene ad aprire mio padre, il quale inizia a balbettare qualcosa e quindi a barcollare; prima che svenga
lo sorreggo dicendogli di stare su, ma devo tenerlo di
peso. Sentendo il trambusto gli altri famigliari si precipitano da noi. Chi ride, chi piange, sulla porta una
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gran confusione. Li prego di fare piano per non attirare l’attenzione dei vicini di casa, la prudenza non
è mai troppa. Una volta entrati inizio a raccontare le
mie peripezie. Mentre parlo gli occhi si posano sulla
tavola, la cena è già stata consumata e i piatti sono
vuoti. Mamma se ne accorge subito e chiede se ho
fame; le rispondo che non la sento, tanto sono felice, essere a casa sembra un sogno. Lei comunque
mi prepara una bella tazza di latte caldo con il pane.
Deglutisco a fatica a causa della gola stretta per la
commozione.
A una certa ora decidiamo di andare a dormire
e raccomando a tutti di non parlare del mio ritorno
con nessuno. Quale disertore devo rimanere nascosto fino al momento in cui potrò trovare una soluzione al problema. Il codice militare tedesco in questi
casi non è tenero, prevede la fucilazione!
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V
Il giorno dopo mio padre, al rientro dal lavoro, mi
dice che la Todt, la stessa organizzazione per la quale
ho lavorato a San Rossore, cerca operai per costruire
un campo d’aviazione a Poggio Renatico, distante da
casa una ventina di chilometri. Questa può essere la
soluzione giusta.
L’indomani alle sei sono in sella alla bicicletta.
Giunto sul posto chiedo al direttore dei lavori se mi
possono assumere come operaio e lui compila un
modulo, annunciando che lo sono già! Mi sento felice, ho ottenuto ciò che volevo e il peggio, per ora, è
evitato. Mi consegna anche un permesso dal quale si
può desumere che sono al servizio dei tedeschi e che
posso viaggiare in bicicletta.
Dopo tre giorni di lavoro al campo, durante i quali
pranzo a casa e dormo nel mio letto, arriva una brutta sorpresa. La sera, al rientro dal lavoro, trovo ad at25
tendermi i carabinieri. Dicono di seguirli in caserma,
perché il brigadiere ha bisogno di parlare con me.
Appena entro mostra la denuncia da parte del comando di Lucca della mia diserzione con l’ordine di
arresto e la segregazione a San Giovanni in Monte.
A questo punto presento al brigadiere il permesso
rilasciato dal comando di Poggio Renatico, aggiungendo che mi sono allontanato da San Rossore unicamente per essere più vicino a casa. Avendo saputo
che la Todt aveva aperto un cantiere a Poggio sono
partito. Risponde che occorre una dichiarazione dei
miei superiori attestante quanto da me dichiarato e
io propongo di portarla l’indomani. Niente da fare,
vengo trattenuto e al mio posto vogliono che vada
mio padre.
Questi, purtroppo, ha una forma di balbuzie assai
pesante che, se aggiunta all’emozione, non gli fa uscire dalla bocca alcuna parola comprensibile! Infatti,
giunto colà, dopo vari tentativi di capire cosa volesse,
il comandante tedesco lo congeda dicendo: «Niente capire, niente fare!». Così, affranto e senza alcun
documento, torna da noi. Antonini, questo il nome
del brigadiere, mi fa uscire dalla cella e mi mette di
fronte a mio padre dicendo che siamo in una brutta
situazione. «Aspettate qui, vado a parlare con il fiduciario e gli altri capi fascisti al bar Centrale, di fronte
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a noi.» Loro, là fuori a ridere e scherzare e noi qui in
caserma ad attendere.
Finalmente arriva la sentenza: se accetto di andare
in Germania per quaranta giorni con l’esercito della
Repubblica di Salò niente prigione, in caso contrario San Giovanni in Monte è pronto ad accogliermi.
Scelgo la Germania e il brigadiere telefona a Lucca
per avvisare che entrerò nell’esercito del Duce con
altri coetanei. Alla valigia pensa mio padre, che va a
casa, la prepara e me la porta in caserma. Ci salutiamo ancora una volta augurandoci di vederci presto e
di veder finire questa maledetta guerra.
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VI
Il mattino seguente due carabinieri mi ammanettano e in automobile mi scortano al distretto militare
di Bologna. Qui un reparto di briganti neri mi prende
in consegna e mi porta in un camerone buio pieno
di ragazzi che non si sono presentati alla chiamata.
Avvisano poi che entro pochi giorni partiremo per
Vercelli.
Dopo due giorni infatti ci ordinano di formare
file per tre. Brigate nere da un lato e dall’altro militari
tedeschi in assetto da guerra, con tanto di elmetto e
armati di Maschinenpistole. Prima di incamminarci per
raggiungere la stazione, avvisano che in caso di tentata fuga ci spareranno.
In stazione vi sono tanti altri giovani in attesa di
partire. A questo punto arriva un lungo treno merci ed i ferrovieri in servizio aprono i carri bestiame.
Al centro di essi una stufa spenta e a ridosso delle
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pareti, foglie. Un militare conta quaranta di noi per
ogni vagone, quindi chiude il portellone dall’esterno.
Terminata l’operazione, il treno si avvia con il suo
carico di carne umana. Fa freddo, siamo vicini alle
feste di Natale 1943. Cerchiamo di tenerci più vicini
possibile per scaldarci, mentre ci domandiamo a cosa
servano le stufe spente.
Dopo qualche ora di viaggio il convoglio si ferma
nei pressi di una stazione, ma non riusciamo a capire quale. Vengono ad avvisare che quanti hanno dei
bisogni corporali si tengano pronti. Chi deve orinare
portone di sinistra, chi fa altri bisogni quello di destra. Due soldati, uno per lato, aprono e chiudono i
portelloni ogni cinque di noi, intimando di non allontanarci più di quattro o cinque metri. Circa un’ora
dopo questa schifosa operazione, finito o non finito,
ci fanno risalire e si riparte.
A Bologna ognuno di noi ha ricevuto cinque gallette di pane secco, che dovranno bastare per tutto il
viaggio.
Giunti a Vercelli, attraverso un finestrino munito
di griglia metallica vediamo un altro treno come il
nostro, fermo su un altro binario. Dopo poco una
motrice lo aggancia e con un forte scossone lo unisce
al nostro. Giungono anche due autocarri, uno pie29
no di soldati tedeschi armati che si dispongono sul
marciapiede, l’altro di buglioli. Il convoglio si avvia
molto lentamente, un militare apre il portellone di
ogni vagone gridando: «Achtung!», mentre un altro
getta all’interno uno di quei «cosi» vergognosi e richiude. Ci rendiamo tutti conto che non scenderemo
più sino alla destinazione finale.
Durante la notte un freddo indescrivibile e una
gran paura di essere bombardati dagli alleati.
Appena giorno il treno riparte. Nevica, e parecchia si è già depositata sui vagoni.
Giunti alla meta ci accoglie il sole, ma il freddo
è tanto. Dal finestrino vediamo dispiegati i soldati,
molti civili e anche parecchi ragazzini inquadrati. Dalle divise si capisce che sono scolari. Vengono aperti
dai ferrovieri e dai militari i portelloni da entrambi i
lati e ci dispongono in fila per tre. Il percorso che ci
fanno fare passa a ridosso dei civili e dei ragazzini,
che urlano: «Traditori, banditi, Saite», e con la bocca
fanno segno di sputarci addosso. Il cartello della stazione riporta «Munzingen», all’esterno vi è quasi un
metro di neve con una gelata e un freddo spaventosi.
Sempre inquadrati camminiamo per tre o quattro
chilometri, sino a raggiungere un campo recintato
con filo spinato alto tre metri. All’interno di que30
sto, grandi baracche in legno e un enorme piazzale.
All’ingresso un posto di blocco con una stanga e ai
lati due baracche in legno. Una garitta molto alta domina il tutto e al suo interno uomini armati sono di
guardia. Un cartello reca la scritta: «Gensevan». Vi è
un passaggio per i pedoni ed entriamo nel piazzale
sgombrato dalla neve. A prenderci in consegna, oltre agli ufficiali tedeschi, c’è un capitano italiano di
nome Trevisanato. Una volta sull’attenti, ognuno di
noi avanza di quattro passi e ci contiamo da soli fino
al numero di sessanta. Sessanta ogni baracca. Rimanendo così fermi ci siamo «caricati» di freddo e non
vediamo l’ora di entrare per riscaldarci un po’.
All’interno della struttura vi sono due file di letti
e li occupiamo. Sono fortunato, il mio è il ventesimo
posto, vicino alla stufa, e il solo sentire un pochino
di tepore mi rigenera. I compagni continuano ad entrare, mi passano davanti uno ad uno e io guardo attentamente se conosco qualcuno. Ad un tratto noto
un ragazzo con i capelli ricci che più si avvicina più
assomiglia a un mio compaesano. Pochi passi e non
ho più dubbi. Lo chiamo con il suo soprannome:
«Rizzon!». Lui alza la testa, mi vede e per istinto ci abbracciamo, attirando però l’attenzione delle guardie,
che si mettono a urlare. Capiamo che per ora dobbiamo stare ognuno al proprio posto e in silenzio. Il
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mio compagno di sventura si chiama Egidio Vaccari
e sono felicissimo di sapere che qui, in questo inferno, vi è una persona con la quale potrò parlare. Ci
faremo coraggio a vicenda. Sento un ronzio alla testa
e un gran caldo in tutto il corpo, le gambe tremano
e sono così emozionato da non accorgermi di quanti
continuano ad entrare. Egidio è tre castelli più avanti
e possiamo vederci bene, sono tanto contento.
Dal momento in cui siamo scesi dal treno è trascorsa metà giornata. Ognuno di noi ora ha il proprio
letto assegnato. Entra un soldato, ordina di lasciare
ogni cosa personale, di uscire in cortile e di disporci
in file per tre. Un caporale tedesco armato ordina:
«Avanti!», e ci accompagna ad un’altra baracca adibita a magazzino. Entriamo dieci per volta e veniamo riforniti di pantaloni, giubbotto, camicia, maglia,
calze, scarpe, due fazzoletti, il cappello da alpino, un
camiciotto di tela grigia, la gavetta, il gavettino, un
cucchiaio, un catino in alluminio ed infine un grande
zaino nel quale riporre ogni cosa.
Le ore passano e la fame si fa sentire, delle cinque
gallette non vi è più traccia da tanto tempo. È quasi buio e da un pezzo siamo qui fuori al freddo e a
stomaco vuoto, non resistiamo più. Protestiamo pertanto con il caporale tedesco, il quale risponde che
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la colpa è nostra, perché siamo troppo lenti, «prima
finire, prima mangiare!».
Dopo questa «precisazione» veniamo riportati al
nostro dormitorio che, appeso in alto, ha un cartello
con il numero due; appoggiamo lo zaino sul letto e
con la gavetta usciamo a prendere la cena. Sono molto stanco, la giornata è stata lunga e pesante. In questi
giorni non ho mai dormito in un letto decente e questo che ho davanti è quasi normale. Guardo il mio
compagno e anche lui fa altrettanto, volgo lo sguardo
alla stufa invitandolo là con un cenno. Finalmente
possiamo un po’ parlare.
Gli chiedo per quale motivo non ci eravamo ancora visti e risponde che il suo treno è giunto a Vercelli
un’ora prima del nostro, al quale poi è stato agganciato. Essendo del 1924, quando è caduto il governo
fascista l’otto settembre 1943 era militare ed è tornato a casa. Con l’avvento della Repubblica Sociale
Italiana anche lui ha dovuto presentarsi al distretto.
Racconta che molti paesani erano con lui su quel treno, mi dice i loro nomi e io li conosco bene. Dove
siano in questo momento non si sa.
È giunta l’ora di andare a dormire, ci diamo la
buonanotte dicendoci che questo Natale 1943 di certo non lo scorderemo più. Il materasso è molto sottile, sembra di essere sdraiati su un tavolo di legno. Tra
33
qualche giorno compirò diciotto anni, è mezzanotte
ed alle sei suona la sveglia. Mi addormento guardando il soffitto della baracca e pensando alla mia casa e
alla mia famiglia.
34
VII
Al suono della sveglia abbiamo trenta minuti per
sistemare il letto, che deve essere perfettamente squadrato e con la coperta a quadretti bianchi e azzurri
ben tesa.
Mentre noi siamo fuori a petto nudo e con un
freddo pungente a lavarci, in camerata passa la rivista. Se il letto non è ben fatto, prima di vestirci dobbiamo rifarlo.
Dopo avere ingoiato una specie di caffè che sembra acqua sporca e infilato il camiciotto grigio per
non imbrattare la divisa, tutti di nuovo fuori in fila
per tre e sull’attenti. Ci squadrano da capo a piedi e
se qualcosa non va, punizione! Questa consiste nel
pulire l’interno della baracca, il piazzale, i gabinetti e
tutto quanto passa per la mente dei sorveglianti.
Alle sette inizia l’appello e per chi arriva in ritardo
sono dolori. Dalla sveglia all’appello le cose da fare
sono tante e bisogna letteralmente «volare»! Quando
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siamo inquadrati e arriva il comando della partenza, i
ritardatari devono rimanere fuori dalle righe. Mentre
la compagnia marcia e canta Lilì Marlene, gli stessi
devono correre intorno alla compagnia fino a cadere
sfiniti.
La marcia dura tutta la giornata ed è massacrante.
Dopo parecchi chilometri ordinano l’alt; pensiamo
concedano una pausa e invece ci mettono sull’attenti,
ordinano il «dietro front!», poi di seguito: «Rompete le righe, di corsa, più forte, strisciare sulla neve,
sull’attenti, in riga per tre!», così per tutto il giorno.
L’ultimo deve fare dieci giri intorno alla compagnia
di corsa.
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VIII
Il primo periodo al campo Gensevan è stato un
susseguirsi di marce fino ad arrivare al giorno di
Natale.
Il mattino trascorre come sempre, ma adesso siamo controllati anche da un sergente italiano. Costui,
disertore, per uscire dal campo di concentramento si
è arruolato nell’esercito italo-germanico e ci fa l’ispezione con il suo collega tedesco.
Ora che ci hanno comandato di prendere le gavette e inquadrarci, siamo curiosi di vedere come sarà
il rancio. Speriamo che al posto della solita pappina
con un secondo di rape rosse con un po’ di crauti,
marmellatina, margarina e pane nero da dividere in
quattro, si capisca che è Natale. Quando viene il mio
turno, allungo la gavetta e il cuoco versa un mestolo
di brodo, faccio un passo, allungo il coperchio e mi ci
infila un pezzetto di carne lessa, uno di arrosto e un
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po’ di patate fritte. Per dei giovani come noi il cibo è
sempre insufficiente, in quanto ciò che ci viene dato
è da ripartire per tutta la giornata, quindi colazione,
pranzo e cena.
In occasione della festività abbiamo il pomeriggio
libero, così io e il mio amico possiamo scambiare due
parole camminando all’interno del campo. Egidio
dice di aver saputo che manca qualcuno per completare la squadra mulattieri e di stare valutando se fare
domanda. Il mio consiglio è di provare, sarà sempre
meglio che rimanere qui.
Due giorni dopo avere accettato inizia per lui un
altro addestramento. La sera il silenzio suona alle ventidue ed un po’ prima riusciamo a parlare per qualche
minuto. Lui ora non pranza con noi, ma nella stalla,
pertanto questo è l’unico momento. L’addestramento che ora sta facendo consiste nel riuscire a mettere
il basto a quelle «bestiacce di muli», così li definisce.
Infatti come tocca loro la schiena tirano calci e mordono con il rischio di finire male; ad ogni modo meglio così piuttosto che strisciare sulla neve e rientrare
bagnati fradici.
Dopo circa due mesi iniziano a istruirci circa l’uso
delle armi leggere: fucile, Maschinenpistole e mitraglia38
tore chiamato Maschinengewehr. Niente pallottole, per
diversi giorni dobbiamo soltanto smontare e rimontare. La fase successiva è quella di procedere nello
stesso modo, ma con gli occhi bendati e chi non rispetta il tempo massimo viene punito.
Una mattina ci dispongono in circolo e ad uno
ad uno veniamo bendati e dobbiamo ricomporre il
mitragliatore, i cui pezzi sono stati sparsi all’intorno.
Il più veloce diverrà il mitragliere della squadra.
Nelle giornate seguenti ci insegnano a sparare alle
sagome nel campo da tiro ed al più bravo verrà consegnato un fucile con cannocchiale e diverrà il cecchino della squadra. Ogni tipo di arma viene assegnata a chi meglio la sa usare.
La compagnia di cui faccio parte è formata in
maggioranza da bresciani e bergamaschi, seguiti da
cinque milanesi, quattro emiliani e qualcuno della
bassa Italia. I comandanti italiani sono fanatici per gli
Alpini, ragion per cui dobbiamo essere i più bravi ed
i meglio addestrati della Divisione Monterosa, che per
questo motivo è nominata «La Leonessa».
39
IX
I mesi passano e siamo già all’aprile del ’44, le
giornate sono un po’ più lunghe e più calde. Si parla
di una non lontana partenza per andare a combattere
in Italia. Nell’attesa impariamo sempre più l’uso delle armi, perché in caso di combattimento dovremo
essere padroni della situazione, sia di giorno che di
notte. Adesso la domenica, oltre alle pulizie generali,
dobbiamo anche pulire perfettamente le armi.
A metà del mese di maggio vi è il giuramento della
Divisione Monterosa. Corre voce che nei giorni successivi alla cerimonia inizieranno i preparativi per il rientro in Italia. Ci ritroviamo tutti quanti inquadrati in una
grande vallata poco distante dal nostro accampamento. I comandanti passano in rassegna a pochi metri da
noi e sono seguiti dal duce Benito Mussolini e da un
cardinale che benedice le armi. Raggiunto il palco, la
cerimonia prosegue con il discorso del giuramento e
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della fedeltà alla RSI. Al momento del: «Giurate voi?»,
in tanti rispondono sì ma il sottoscritto, no.
Sono pieno di rabbia, il mio unico pensiero è
quello di fare ritorno in Italia; sarei dovuto rimanere
in Germania quaranta giorni e ne sono passati centottanta! Dopo tanti patimenti quali fame, freddo e
«nuotate» nella neve, non ne posso più.
Finalmente ci si prepara a partire. In giornata, nel
magazzino, veniamo riforniti di scarpe, vestiti e zaino nuovi.
Il giorno dopo solita sveglia alle sei e tutti fuori a
petto nudo. È una giornata molto fredda, con vento
e nuvoloni neri, di lì a poco inizia a nevicare. Rientriamo in baracca per finire di vestirci mentre fuori
il terreno si imbianca sempre più; pure la neve vuole
lasciarci un ricordo della Germania!
Partiamo il dieci giugno del ’44 dalla stazione,
sempre con i carri bestiame come quando siamo arrivati dall’Italia. I viveri a secco che ci vengono dati
dovranno essere sufficienti per ben dieci giorni.
Trenta per vagone, più zaini e armi scariche, siamo stretti come sardine in un barile. Prima di chiudere i portelloni avvisano che si viaggerà solo di notte,
per paura dei bombardamenti alleati. Ogni due o tre
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ore ci sarà una fermata per prendere aria e orinare,
per altri bisogni in «carrozza» c’è il bugliolo!
Viaggiando al buio non si sa mai dove siamo, passiamo davanti alle stazioni ma non riusciamo a leggere i cartelli.
Sette o otto giorni dopo la partenza, un mattino
presto aprono i portelli e ci fanno scendere per i bisogni corporali. Ci rendiamo conto di essere a Ventimiglia, quasi al confine con la Francia. Proviamo
a chiedere dove siamo diretti e ci informano che la
destinazione sarebbe dovuta essere il fronte francese,
ma a causa del crollo di un ponte siamo fermi in attesa di ordini. Quando questi arrivano, si deve tornare
indietro per entrare in Italia e raggiungere La Spezia.
Nostro compito sarà quello di rastrellare le montagne
arrestando e disperdendo le bande di fuorilegge che
si fanno chiamare «Partigiani». La notizia del luogo
mi rende comunque felicissimo, perché già comincio
a pensare di fuggire e di tornarmene a casa: là saremo
in vicinanza del confine tra Liguria ed Emilia. Giunge
l’ordine di caricare zaini ed armi leggere sulle «caratelle» e si parte per una lunga marcia verso La Spezia.
Continuo a pensare fortemente che se mi dovessero
obbligare a compiere dei rastrellamenti scapperò.
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Per evitare le mitragliatrici degli aerei alleati si procede quasi sempre di notte e vengono percorsi circa
venticinque chilometri. Durante il giorno ci nascondiamo nei vigneti o sotto gli alberi ed il pranzo ci
viene fornito con la cucina da campo.
Un mattino siamo appena entrati in un paese
quando, sopra un ponte nei pressi di un bar, dobbiamo assistere a una scena che definire orrenda è
poco. Passiamo davanti a un ragazzino che avrà sì e
no quindici o sedici anni, che all’improvviso inizia ad
urlare e inveire contro di noi, terminando il suo sfogo con queste parole: «Vergognatevi, traditori della
Patria! Amici dei tedeschi!».
La colonna si ferma e uno degli ufficiali gli va incontro e gli chiede di ripetere quanto asserito. Il ragazzo ribadisce parola per parola e allora il tenente
punta la pistola all’addome del giovane e spara. Questi si piega in avanti senza un lamento e il graduato gli
dà una spinta e lo butta giù dal ponte!
La rabbia che nutro per questi fascisti inumani mi
prende lo stomaco e fa sì che la voglia che ho di disertare e di unirmi ai partigiani aumenti a dismisura.
A questo punto abbiamo oltrepassato Genova e
siamo ormai nei dintorni di Recco. Da molti gior43
ni non vedo l’amico Egidio e nemmeno il sergente italiano che ci faceva da istruttore; alcuni dicono
che quest’ultimo è stato ucciso da uno dei partigiani
perché era un fascista prepotente. Molti di noi, con
il rientro in Italia, attendono il momento buono per
vendicare le ingiustizie subite. Il nostro attuale caposquadra si chiama Rota, è milanese ed essendo furiere
ci tiene informati di tutto. L’ultima notizia è che tanti
alpini della Monterosa stanno disertando e dandocela
ci fa sottilmente capire di essere dalla loro parte.
A Sestri Levante prendiamo una strada che conduce nell’entroterra ligure e raggiungiamo il paese
di Velva, distante pochi chilometri da Varese Ligure.
Sopra questo comune vi è il Passo di Cento Croci,
che fa da confine tra le regioni Emilia e Liguria. Sul
versante emiliano la provincia è Parma, su quello ligure è La Spezia.
Al Passo di Velva ci fermiamo in attesa di ordini.
Approntiamo il campo con tende che ospitano quattro persone; nella mia ci sono il ritrovato Egidio e
due bergamaschi. Con questi ultimi in Germania ci
sono sempre stati buoni rapporti di amicizia. Ultimato il lavoro delle tende iniziamo a scavare le postazioni di difesa dagli attacchi aerei e da quelli eventuali
dei partigiani.
Siamo in attesa di ordini ed i nostri ufficiali si sta44
biliscono nell’albergo-trattoria situato nel piazzale
della chiesa. Qui al campo vi è una casetta con due
camere, una ospita l’ufficio del comando, l’altra la fureria con il telefono per mantenere i contatti tra le
varie compagnie della divisione.
45
X
Come detto il nostro caposquadra e furiere ha con
noi un ottimo rapporto di fiducia e ci tiene al corrente di tutte le notizie, anche le più segrete. Un giorno,
parlando con due o tre di noi, propone di convincere
tutta la squadra a disertare con le armi.
In un primo tempo non sappiamo cosa fare, in
quanto sappiamo bene di dover mettere in conto la
fucilazione. A questo proposito abbiamo saputo che
pochi giorni prima del nostro arrivo hanno preso cinque ragazzi ferraresi e li hanno fucilati sul posto; non
contenti, hanno anche bruciato la casa della povera
gente che li aveva ospitati. Tutta questa vergogna è
accaduta in località Carasco.
Mentre passano i giorni in attesa di ordini, al campo arriva una ragazza del luogo per vendere fichi e
altri frutti agli alpini. Io e Rota prendiamo confidenza
con lei, dice di chiamarsi Violetta e a questo punto,
46
in gran segreto, le confidiamo di essere un gruppo
pronto a disertare con le armi per unirci ai partigiani.
Risponde che in questa zona non ci sono partigiani
e intanto si continua a parlare di questa maledetta
guerra, dei lutti che causa. Ripetiamo che molti di noi
non vogliono partecipare ai rastrellamenti, bruciare
le case di chi nasconde i partigiani e arrestare i giovani renitenti alla leva. Lei ascolta e approva il nostro
modo di ragionare, ma per paura di essere tradita ripete che la zona è tranquilla e senza partigiani.
Il tempo passa e Violetta si presenta ogni giorno
con la sua cesta piena di frutta. È giovane come noi
e con me e Rota si lascia dire anche parole confidenziali; mentre si ride e si scherza tutti i nostri discorsi
però terminano sempre riproponendo la nostra volontà di unirci ai partigiani.
Un mattino arriva, ci chiama in disparte e dice che
se vogliamo scappare ci dobbiamo trovare alle due
dopo mezzanotte al bivio di Maissana. Lì troveremo
ad attenderci una persona che ci accompagnerà su in
montagna.
Ne parlo subito a Egidio per convincerlo a venire
con noi, ma lui non vuole, ha paura. I mulattieri ed
i carrettieri come lui seguono a distanza le truppe,
trasportando armi pesanti, vettovaglie e cucine da
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campo. Essendoci pochi rischi non se la sente di affrontare questo passo.
Noi dieci della squadra comandata da Rota abbiamo deciso, si tenta. Questa sera siamo noi di
guardia all’accampamento e al posto di blocco, Rota
è al telefono. Una notte perfetta per tentare la fuga:
abbiamo in mano tutto il campo. Conosciamo bene
le abitudini dei nostri ufficiali; dopo cena escono
per andare in una osteria che dista circa cinquecento
metri e non fanno rientro prima della mezzanotte.
A questo punto rimangono due ore per organizzarci. Prendiamo gli ultimi accordi, stabilendo
che all’una inizieremo, uno per volta, a distanza di
cinque o sei minuti, a lasciare l’accampamento. Per
primo Razza, secondo Ortolani e così fino agli ultimi due, Rota che è il telefonista ed io che sono
di guardia al posto di blocco ad attendere il rientro
degli ufficiali.
All’una e trenta manca ancora all’appello il tenente Pini. I compagni di fuga sono già sul luogo dell’appuntamento ed attendono il mio arrivo.
L’orologio segna le due meno dieci, e ancora il tenente non si vede. Non posso più aspettare, abbandono il posto di blocco ed inizio a correre verso il
luogo stabilito all’interno del bosco. Ho percorso
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sì e no duecento metri quando improvvisamente il
silenzio viene rotto da tre colpi di pistola. È il segnale di allarme! Di sicuro il tenente Pini è arrivato
alla postazione e non vedendo nessuno ha esploso
i tre colpi. In questi casi gli ordini sono di prendere le armi (che sono sempre cariche), entrare nelle
postazioni di difesa e sparare nel buio anche senza
vedere il nemico.
Sentendo il fracasso i compagni scappano su per
la mulattiera e quando arrivo non vedo nessuno.
Corro a perdifiato lungo il sentiero cercando di raggiungerli, ma ad un certo punto non ce la faccio più,
inciampo nel buio e mi fermo. Con me ho il mitra,
due bombe a mano e la borsa tascapane con le munizioni; sono carico come un mulo!
Mentre mi riprendo un attimo ascolto se davanti
a me si odono dei passi o dei rumori, ma non si
sente niente. Riparto di corsa per allontanarmi il più
possibile dall’accampamento. Lungo la mulattiera
intravedo un muretto, lo oltrepasso di qualche metro e nel silenzio più assoluto una voce intima: «alt!».
Rispondo: «Sono Zagni!», ed escono fuori tutti i
miei compagni.
Finalmente ci siamo riuniti, chiedono cosa è successo e spiego loro ogni cosa. Pini era sicuramente
assai vicino, ha dato l’allarme ed ancora si sentono
49
degli spari. In mezzo a noi si ode una familiare voce
di donna, chiedo chi è e mi rispondono: «Violetta».
È lei la nostra guida.
Proseguiamo per alcuni chilometri, Violetta in testa e noi in fila indiana. Ad un certo punto entriamo
in un bosco di castagni e ci fermiamo davanti a una
capanna. La nostra staffetta si annuncia: «Capra, Furio, sono Violetta!», e dall’interno: «Vieni, entra, che
novità porti?».
Dietro di lei entriamo pure noi, ma gli amici di
Violetta, vedendo i cappelli da alpini, scattano in piedi
armi in pugno. Immediatamente lei urla: «Fermi, non
sparate! Sono alpini che hanno disertato e vogliono
unirsi a noi». L’interno della capanna è illuminato fiocamente da un lumicino ad olio, ed è in questa flebile
luce che la tensione scompare d’incanto per lasciare
posto a sorrisi e strette di mano. Siamo tutti felici,
raccontiamo di essere fuggiti dall’accampamento di
Velva e di essere arrivati qui grazie al coraggio e alla
bravura di Violetta.
Vorremmo continuare a parlare per ore, ma la
stanchezza dovuta alle tante emozioni vissute e alla
lunga marcia ci obbliga a riposare qualche ora prima
dell’arrivo dell’alba.
50
XI
Quando ci svegliamo veniamo accolti da un bel
sole e da Violetta che ci comunica l’arrivo, a breve,
del comandante partigiano che ci interrogherà. Dopo
poco tempo, infatti, un uomo possente e di alta statura giunge davanti alla capanna mentre noi siamo intenti a conversare felici. Si vede che ha qualche anno
in più di noi. I suoi compagni gli vanno incontro, lo
chiamano «Saetta» e gli dicono: «Guarda, eravamo in
sei ed ora siamo in sedici! E che belle armi lucide
hanno portato!».
Ci presentiamo a lui ed abbracciamo anche Violetta come fosse nostra sorella, senza di lei non saremmo qui. Il comandante è contento di vederci, così
come fossimo amici di vecchia data, ma ad un certo
punto si fa serio ed apre una carta topografica dove
sono segnati tutti i distaccamenti tedeschi comune
per comune. Dice che se vogliamo tornare a casa, si
51
può fare. Con un lasciapassare, transitando di brigata
in brigata, ognuno di noi può raggiungere la propria
abitazione. Unica condizione è che nel comune di residenza non vi siano comandi tedeschi.
Inizia pertanto a chiedere a ciascuno di noi dove
abita e quando arriva il mio turno avverte che la zona
di Molinella è piena di tedeschi. Se decidessi di tornare, a parte i rischi per il lungo viaggio, dovrei rimanere sempre nascosto.
Scelgo di restare, voglio dare il mio contributo per
la libertà del popolo italiano e di tutti i popoli che
stanno battendosi contro la dittatura di Hitler e di
Mussolini.
Rimaniamo in tre: io di Bologna, Rota milanese e
Razza di Bergamo. Saetta dice che dobbiamo scordare subito i nostri nomi, da ora in poi ci chiameremo
Camera, Barba e Rosa.
Un paio di giorni dopo il colloquio con Saetta,
mentre siamo nascosti in una baracca nel bosco nei
pressi di Santa Maria di Maissana, vediamo la compagnia di alpini dalla quale siamo fuggiti eseguire un rastrellamento. Evidentemente qualcuno ha fatto la spia
e tentano di riprenderci. I nostri ex compagni, arrivati
in paese, entrano in tutte le case rubando ogni bene,
52
dalle catenine agli orologi e ai vecchi ricordi di famiglia.
Un paesano arriva da noi tutto impaurito e disperato per la violenza con la quale hanno depredato la
sua casa e chiede se vogliamo dare loro una lezione. Saetta gli risponde di avere l’ordine da parte del
comando generale di non attaccare, per evitare rappresaglie. L’uomo però insiste; dice che siamo diciassette, che ci farà da guida, che meritano una lezione
e che conosce un posto ideale per un agguato. Per
fare ritorno a Velva i militari devono passare lungo
una mulattiera che ad un certo punto ha la forma di
un ferro di cavallo. Appostandoci sopra, li possiamo
avere in pugno.
Saetta chiede il nostro parere, ben sapendo che i
soldati laggiù, in Germania, erano nostri compagni.
È vero, ma visto e sentito come si comportano ora,
per noi sono nemici, per cui siamo del parere di appostarci ed attaccare.
Il nostro comandante si prende la responsabilità
di disobbedire agli ordini e ci prepariamo all’attacco.
Partiamo con il paesano che ci guida attraverso i
boschi e dopo un’ora siamo nel punto da lui indicato.
È proprio come ci ha descritto, il sentiero sotto di
noi forma un ferro di cavallo ed in lontananza si nota
la compagnia in fila indiana che si avvicina.
Nell’attesa che arrivino al punto giusto ci appo53
stiamo con armi pronte e bombe a mano. Saetta ci
controlla uno per uno e raccomanda di sparare soltanto quando sentiremo la sua arma automatica fare
fuoco. Al grido: «Viva l’Italia!» dovremo sganciarci e
raggiungere il paese di Valletti.
L’azione si svolge in un lampo: la colonna giunge
sotto di noi e Saetta apre il fuoco. Immediatamente
lanciamo le bombe a mano e spariamo pure noi. Gli
alpini fuggono da ogni parte; per Saetta la lezione
che gli abbiamo dato è sufficiente ed arriva il segnale
di sganciamento.
Il giorno dopo Violetta ci dirà che gli abitanti del
paese sono stati orgogliosi di noi, per avere dato una
sonora lezione ai nemici ladri e prepotenti. Il nostro
attacco ha causato sette o otto feriti ed il capitano
Trevisanato nostro ex ufficiale ha perso un occhio
per una scheggia di bomba a mano.
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Comuneglia, Varese Ligure, Natale 1944. Da sinistra: Dall’Orco Cesare
«Biella», Franco Giberti, Paolo Castagnino «Saetta», Dante Verdi «Dan»,
Dino Ghio «Bellamy».
Lager militare tedesco. Uno dei capitoli più neri della seconda guerra
mondiale.
55
Don Bobbio, parroco di Valletti e cappellano della Divisione garibaldina
Coduri, fucilato senza processo il 3 gennaio 1945.
56
“QUANDO GLI CHIESERO
AL POLIGONO DI TIRO
SE VOLEVA PREGARE PRIMA DI MORIRE
AI NAZIFASCISTI RISPOSE
IO SONO GIÀ A POSTO CON LA MIA COSCIENZA
MA PREGHERÒ PER VOI
E CADDE CON LE MANI IN CROCE
DON BOBBIO
PARROCO DI VALLETTI E DELLA CODURI
A TESTIMONIARE
CON SERENA FERMEZZA
CRISTIANA E PARTIGIANA
IL VALORE DI UN’INTESA
SALVATRICE DELLA PATRIA E DELL’UMANITÀ.”
Chiavari. Epigrafe che accompagna il busto di bronzo a memoria
di Don Bobbio. Il testo, scritto da «Bini», costituisce la motivazione
della medaglia d’oro che gli è stata accordata dalla Resistenza ligure.
57
Paolo Castagnino «Saetta» nei giorni della liberazione a Rapallo.
58
Iscioli di Ne, Val Graveglia, festa patronale del marzo 1944. I militari
di quella che sarà la Divisione Coduri portano la cassa della Madonna.
Distaccamento della Brigata Longhi, Val di Vara. Il terzo in piedi da sinistra
è Sergio Zagni «Camera».
59
Comuneglia, Varese Ligure, Natale 1944. Distaccamento dei Ghiggeri.
Una giornata di festa con il vino e i ravioli dei contadini della zona.
60
XII
Dopo pochi giorni la nostra vecchia compagnia
viene trasferita in Piemonte e del mio paesano Egidio non saprò più nulla. Anche noi da Valletti ci trasferiamo sul versante opposto della vallata, nel paese
di Comuneglia, in una borgata chiamata Ghiggeri.
Per avere un po’ di vitto, ogni mattina due o tre di
noi si recano ad elemosinare dalle famiglie. Tante di
queste sono senza i capofamiglia, in quanto costretti
ad emigrare da ogni parte per cercare di migliorare
la loro misera condizione di vita. Pure essendo tanto
poveri, molti offrono qualcosa e in più ci informano
in caso di avvistamenti o di rastrellamenti. Quando
ciò accade, ci trasferiamo in zone più tranquille in
attesa che se ne vadano. La stragrande maggioranza
della popolazione ci vuole bene e ci protegge sapendo di rischiare tantissimo. Sanno però che lottiamo
per loro come per noi, per la nostra libertà. Se tan61
ti partigiani come me al termine della guerra hanno
fatto ritorno a casa, lo devono proprio all’appoggio e
all’incitamento del popolo.
Quando sono di pattuglia al Passo del Biscia vado
spesso a casa di un calzolaio di nome Giacumotto.
La moglie si chiama Maria ed hanno tre figlie piccole:
la più grande Maria Pia, la seconda Elia e la terza,
che appena cammina, Edda. Giacumotto e sua moglie hanno anche un poco di terreno a mezzadria e
tutto il giorno sono nel campo. Ho imparato un po’
anch’io a riparare le scarpe, così mentre lavoro sorveglio e coccolo le bambine.
La sera quando i genitori rincasano preparano la
cena per tutti, anche per me. Dopo cena un po’ io, un
po’ Giacumotto e un po’ un suo vicino di casa che
possiede la macchina per cucire, portiamo a termine
le riparazioni. Quando rientro al campo, i padroni
delle scarpe, che hanno girato tutto il giorno scalzi,
possono finalmente rimetterle ai piedi.
Ci attende però un’altra pericolosa avventura.
62
XIII
Un giorno i SAP di Chiavari ci avvisano che stanno organizzando un rastrellamento nella nostra zona.
Siamo nel mese di ottobre del ’44, ci sganciamo da
Ghiggeri e ci trasferiamo in una zona isolata chiamata
Cadonica.
Con dei coltellini peliamo un bel po’ di castagne
verdi (nient’altro da mangiare), accendiamo il fuoco con sopra treppiede e paiolo ed attendiamo che
cuociano. Improvvisamente si ode in lontananza un
colpo di fucile, prendiamo i binocoli e scrutiamo in
direzione dello sparo. In fila indiana ci sono venti alpini dell’Esercito Repubblichino Fascista che avanzano lungo il sentiero. In quattro prendiamo le armi
e corriamo ad appostarci in una collinetta dalla quale
possiamo osservare ed attendere i nemici. Appena
sono a tiro apriamo il fuoco, ma loro saltano nel bosco e da sopra di noi altri alpini ci lanciano bombe a
mano e colpi di mortaio. È un’imboscata!
63
Fuggiamo tutti nella macchia, sia noi che i compagni rimasti dove bollono le castagne ancora verdi.
Sappiamo dove ritrovarci una volta fuori pericolo.
L’amico Pesce di Biella ed io cerchiamo di stare insieme, ma lui nel correre si procura una brutta distorsione al piede sinistro. Lo sostengo per tutto il cammino, fino a quando ci fermiamo ambedue sfiniti. La
caviglia è molto gonfia e sente molto male. Dobbiamo trovare una soluzione e mi viene in mente che
poco lontano c’è un casolare abitato da una famiglia
di coltivatori. Con il loro aiuto lo nascondiamo in un
casone lontano da casa e mi faccio assicurare che gli
daranno cibo finché non sarà in grado di camminare
e raggiungerci.
Sistemato alla meglio l’amico, corro al luogo
dell’appuntamento, che è un altro casone in località
Croci. Qui ci ritroviamo tutti, fortunatamente non
abbiamo avuto né morti né feriti, quindi il morale è
alto. Chissà le nostre castagne, che fine avranno fatto? Quando ci siamo sganciati molti di noi hanno
chiesto un po’ di cibo agli abitanti di Toceto, di Ghiggeri e di Codivara, e qualcosa hanno donato. Siamo a
digiuno dalla sera prima ed è commovente pensare a
questa gente così povera che si toglie letteralmente il
pane di bocca per aiutarci.
Quando sono arrivato era quasi buio ed i compa64
gni hanno tenuto qualcosa da mangiare per me e per
Pesce, due misere pennellette fatte con farina di castagne. Dopo averli ringraziati metto le mani in tasca
ed estraggo altre pennellette ricevute dalla famiglia
che ha in custodia Pesce. Tutti si mettono a ridere,
ma nel momento in cui dall’altra tasca prendo fuori
una bellissima formaggetta stagionata inizia una vera
festa! In un attimo, un po’ per uno, sparisce ogni cosa
e la serata termina in grande allegria e raccontandoci
barzellette.
È tardi quando decidiamo di andare a dormire. La
nostra coperta sono le foglie di castagno che le famiglie raccolgono per fare il letto alle mucche.
Il mattino seguente io e Basca, alpino di Brescia
disertore pure lui, andiamo a fare un sopralluogo
dove siamo stati attaccati il giorno precedente. Cauti e guardinghi per non essere sorpresi da qualche
pattuglia nemica, raggiungiamo il posto esatto dove
bollivano le nostre castagne. Non è rimasto nulla, gli
alpini si sono ripresi i tre muli che avevamo confiscato loro in uno scontro precedente e anche il nostro
prezioso paiolo di rame.
Alcuni giorni dopo, una mattina, sono di vedetta
sul monte Castello, quando improvvisamente esplo65
dono tre colpi di mortaio a una ventina di metri da
me. Il resto della squadra che si trova sul versante
opposto del monte accorre per fare resistenza.
Accanto a me l’amico Basea si apposta con il suo
mortaio leggero che porta sempre con sé, notte e
giorno. Di seguito tutti gli altri si tengono pronti. Con
Basea è nata un’amicizia ferrea, è un ragazzo grande
e grosso ma buono, altruista e sincero come pochi.
Più di una volta noi due da soli abbiamo assalito e
sequestrato rifornimenti diretti al campo dell’esercito
italo-tedesco; ci intendiamo alla perfezione e siamo
legati come due fratelli.
Aspettiamo un attacco per parecchio tempo, ma
non si vede nessuno; probabilmente gli alpini sono
tornati alla loro base.
66
XIV
Mancano pochi giorni al Natale del ’44 e ogni sera
ascoltiamo Radio Londra perché attendiamo un segnale che ci confermi il lancio di aiuti da parte degli
alleati. Si tratta di armi, vestiario, scarpe ed altro materiale molto utile alla nostra causa. I vestiti poi sono
indispensabili, in quanto siamo interamente ricoperti
di pidocchi, nonostante ogni giorno mettiamo a bollire quelli che indossiamo.
Una sera giunge il segnale tanto atteso e la mattina
successiva iniziano i preparativi per ricevere il lancio.
L’appuntamento è per le ore diciotto del sedici dicembre 1944. Nostro compito è quello di accendere
fuochi per far capire al pilota dell’aereo in arrivo la
nostra esatta posizione. In una vallata poco distante,
alle diciotto in punto, i falò sono accesi. Subito in
lontananza si sente il rombo del motore, l’aereo compie un giro a bassa quota ma non sgancia.
67
Dopo essersi un po’ allontanato vira e ripassa sopra di noi lanciando un paracadute, poi un altro, un
altro ancora... in totale sei! Iniziamo immediatamente
a recuperare questa manna piovuta dal cielo, tanto
preziosa sia per noi che per gli abitanti della zona.
Non possiamo certo scordare quanto ci hanno aiutato senza mai tradirci.
Lavoriamo al buio tutta la notte e metà del giorno
dopo per nascondere nei casoni in mezzo al bosco
sia il materiale che i paracadute. Una parte degli aiuti
la nascondiamo nella canonica della chiesa di Valletti
il cui parroco, don Bobbio, è anche il prete della Divisione Coduri della quale facciamo parte anche noi.
Il comandante della Coduri si chiama Eraldo Fico,
nome di battaglia Virgola, ed è operaio al cantiere
navale di Riva Trigoso.
Con i viveri giunti da Oltremanica, dopo tanti
mesi di malnutrizione e di fatica, vogliamo trascorrere il Natale in tutta serenità e con un menu particolare. La proposta è quella di un pranzo a base di piatti
regionali, io bolognese, Rosa di Rovigo e Razza di
Bergamo proponiamo i tortellini, ed i liguri i ravioli
con il pesto alla genovese. Pieni di entusiasmo e di
allegria ci prepariamo a portare a compimento questa opera assai interessante. Approntato l’occorrente,
68
alla fine mancano solo le uova. Barattiamo pertanto queste ultime dando alla famiglia vicina zucchero,
cioccolato inglese e sale grosso, che da quelle parti
manca da diversi mesi e si può trovare soltanto al
mercato nero. Oltre a ciò alle donne offriamo i paracadute, che sono di seta pura e di colori diversi, due
azzurri, due bianchi e due rossi. Con questi ultimi
chiediamo se ci possono fare camicie e fazzoletti. Il
patto viene suggellato e le festività trascorrono nel
migliore dei modi.
Il 27 dicembre, però, le staffette giunte da Chiavari ci avvertono che Brigate Nere e tedeschi stanno
organizzando un rastrellamento a largo raggio per
disperderci e impadronirsi dell’entroterra. Da Borgo
Val di Taro, da Santa Maria del Taro, da Cassego, da
Scurtabò, i vari distaccamenti iniziano l’operazione.
Con loro vi è un reparto di «mongoli», fatti appositamente ubriacare per violentare le donne e bruciare
le case!
Il nostro comando di divisione e le varie squadre
riescono ad evitare l’accerchiamento, noi al contrario
ne siamo dentro. Per due giorni e due notti tentiamo
di uscire, ma ogni volta ci imbattiamo in un nemico
molto più forte di noi e dobbiamo ritirarci.
Il giorno 28 dicembre è il mio compleanno; il
69
mattino successivo, affamati e sfiniti, ci fermiamo in
una casa isolata e fuori dall’abitato, in località Gattea.
I proprietari cucinano qualcosa alla meglio, sappiamo che a breve dovremo difenderci da un attacco
nemico, non esiste via di scampo. Due di noi e Saetta, mentre gli altri riposano un po’, fanno la guardia
nascosti nel bosco.
Alle otto iniziano a sparare con un mitragliatore
contro la porta della casa. Comincia l’inferno, colpi
di mortaio sul tetto e una miriade di pallottole penetrano all’interno bucando porta e finestre in legno.
Si spalanca la porta ed entra Saetta con la giacca
tagliata, è venuto in nostro soccorso e sparando tentiamo di uscire per raggiungere il bosco. Io, lui, Cid
ferito e qualche altro riusciamo a toglierci da quell’inferno maledetto, ma alla fine conteremo otto nostri
compagni uccisi e trentadue fatti prigionieri.
La nostra fuga termina a Varese Ligure, dove ci
aggreghiamo provvisoriamente alla Divisione Fiamme
Verdi, comandata da «Richetto» di Borgo Val di Taro.
Il pomeriggio torniamo alla Gattea con l’intento di
recuperare i nostri morti. Nascosti a poche centinaia
di metri dal luogo dell’agguato, con il cannocchiale
vediamo i tedeschi ancora appostati e pronti a prenderci. Ritorniamo così sui nostri passi per ripresentarci il giorno seguente. Dopo avere ben controllato
70
che non vi siano presenze nemiche, raccogliamo i
nostri morti ed avvisiamo i loro famigliari. Questa
giornata non la potrò più dimenticare; ancora oggi,
mentre scrivo queste parole, si rinnovano sofferenza,
strazio e il cuore trema ancora.
Dopo l’agguato della Gattea, i briganti neri insieme ai tedeschi arrestano don Bobbio; sarà fucilato di
lì a pochi giorni, a Chiavari.
Quest’ultima sconfitta non piega però il nostro
ardore e la nostra determinazione. Tutte le squadre
disperse dal rastrellamento si radunano in riviera ed
attaccano le caserme imprigionando ufficiali e soldati nemici. Pensavano di aver battuto la Resistenza
e invece gli sconfitti sono loro. I cittadini al nostro
passaggio applaudono e gridano: «Viva i partigiani!».
71
XV
Nel mese di gennaio del ’45 avviene uno scambio
di prigionieri e tornano così in libertà i compagni della Gattea. Si ricompone allora il nostro reparto, che
però deve piangere Pesce e don Bobbio, fucilati da
uno spietato ufficiale fascista di nome Spiatta.
A metà febbraio, per far capire al popolo che la
situazione è in mano nostra e che regime fascista e
occupazione tedesca hanno i giorni contati, prepariamo un’azione in grande stile. Con i vari gruppi ci
diamo appuntamento al Passo del Biscia. Al tramonto partiamo da Valletti e dopo una camminata nel
bosco raggiungiamo il luogo stabilito per l’incontro;
in tutto saremo un centinaio.
Equipaggiati con armi adatte ad un attacco a sorpresa, facendo meno rumore possibile nonostante
bazooka e mortai leggeri, raggiungiamo la riviera in
72
località Lavagna. Attendiamo le due di notte e ci incamminiamo silenziosi lungo le vie del paese, fino a
raggiungere le caserme. Qui sono dislocati una ventina di militari.
Al segnale iniziamo a sparare con tutte le armi a
disposizione, quindi sospendiamo e con un megafono intimiamo a tutti di uscire con le mani sopra la
testa. Non hanno possibilità di fuga e in tre minuti
sono fuori in cortile pronti per la resa. L’azione si è
svolta in modo fulmineo per evitare l’arrivo di rinforzi e attraversiamo il paese velocemente diretti verso
il bosco.
Sentendo il trambusto e vedendo i prigionieri, la
gente esce in strada e sui balconi, applaudendo e imprecando contro i fascisti. Gridiamo alla popolazione
di stare pronti, che quando scenderemo dai monti
per l’attacco finale ognuno di loro dovrà occupare le
piazze ed aiutarci in ogni modo possibile. Solo così
potremo liberarci di questo regime sanguinario e prepotente conquistando quella libertà che tutti vogliamo, anche a rischio della vita.
Verso mezzogiorno già siamo al campo e i compagni fanno una gran festa vedendo che stiamo tutti
bene ed abbiamo anche i prigionieri. Questi ultimi
sono convinti che la loro sorte sia segnata. Duran73
te l’interrogatorio dicono di aver aderito alla RSI
unicamente per paura di essere considerati disertori
e quindi fucilati. Nessuno di loro, però, approva il
comportamento violento e schifoso dei fascisti comandati da Spiatta. (Al termine della guerra quest’ultimo sarà processato e condannato a morte per le
torture e le violenze inflitte ai prigionieri.)
Il comando, preso atto della loro avversione all’attuale regime, decide di concedere loro l’opportunità
di redimersi e di schierarsi dalla nostra parte. Vengono pertanto separati due o tre per distaccamento
e tenuti sotto controllo per verificare se veramente
intendono familiarizzare con la popolazione e comportarsi bene.
74
XVI
Passano alcuni giorni e si sparge la voce che presto ci sarà la battaglia finale.
Ai primi di marzo del ’45 al nostro gruppo, ora
composto da tredici persone, viene nuovamente assegnato il posto di osservazione situato sul monte
Castello, questa volta sul versante di Codivara.
Troviamo riparo in un vecchio casone costruito
con i sassi del luogo e adibito a ricovero per fieno
e per foglie di castagno. Possiamo cucinare, riposare e bere da una sorgente naturale che sgorga dalla
montagna. Proprietario è un abitante della zona che
chiamano «Megà». Il casone è a metà del costone del
monte e sembra un posto tranquillo. Di notte vi sono
sempre due sentinelle che in caso di pericolo hanno
l’ordine di sparare tre colpi in aria. Se ciò dovesse
accadere, dobbiamo disporci a difesa oppure essere
pronti per lo sganciamento.
75
Un mattino ci alziamo e dopo aver dormito coperti con le foglie usciamo per scrollarle dai vestiti e
respirare l’aria fresca. Stranamente le nostre due sentinelle tardano a rientrare. Io e Bufalo, il cuciniere,
siamo sempre i primi ad alzarci e ci stiamo gustando
la promessa di una bella giornata di sole, quando da
poco lontano si ode un colpo di fucile e la pallottola
ci manca per pochi centimetri.
Con un salto entro nel casone dove i compagni
dormono e grido: «Fuori! Fuori! Siamo circondati!».
In quel momento i nemici aprono il fuoco con
tutte le armi in loro possesso: mitragliatrici, armi automatiche, mortai, fucili; sembra il finimondo.
I compagni, svegliati di sorpresa e mezzo addormentati, non si rendono ben conto del pericolo. Io al
contrario sono ben sveglio, vestito, con gli scarponi
allacciati, per questo li prendo uno per uno buttandoli fuori a calci e spintoni. Scalzi e in mutande grido
loro di correre più forte che possono giù per la valle.
I nostri avversari sono un po’ coperti dal manufatto
e gli amici riescono a fuggire.
Ora sono solo, imbraccio il mitragliatore Bren e,
riparato dall’angolo del casone, sparo una lunga raffica contro gli alpini che stanno venendo all’assalto.
Sentendo le pallottole fischiare vicinissime si gettano
a terra ed io approfitto per uscire allo scoperto e cor76
rere giù per la valle saltando di terrazza in terrazza.
Odo le loro grida: «Non sparate, non sparate che lo
prendiamo vivo!».
Resisi però conto che sono molto più veloce di
loro e li distanzio, iniziano di nuovo a sparare e a
lanciare bombe a mano. Una di queste, per lo spostamento d’aria, mi fa cadere; raccolgo il mitragliatore
che mi è scappato di mano e vuoto il caricatore dei
pochi colpi rimasti.
A terra, vicino a me, un caricatore pieno; lo raccolgo e riprendo la fuga. In poco tempo sono fuori
tiro dalle bombe a mano ma si sentono ancora dei
colpi di fucile. Mi prende adesso un grande senso di
contentezza per lo scampato pericolo e dico a me
stesso: «Anche questa volta li ho fregati!».
Correndo così veloce e a zig-zag sono un bersaglio
in movimento ed i pochi spari che ancora si sentono
hanno poche probabilità di raggiungermi. Proseguo
ancora veloce ma ad un certo punto sento del liquido
dentro la scarpa del piede destro. Mi viene subito da
pensare che non ho mai messo piede in acqua, per
questo mi fermo a controllare.
Tiro su il pantalone e vedo che è sangue che esce
da dietro il ginocchio. Comincio a sentire dei brividi lungo la schiena, ma per fortuna mi vengono in
mente i consigli che ci davano negli addestramenti:
77
«Quando si fugge e si viene colpiti, continuare a camminare e se possibile anche a correre, mai fermarsi!».
Riparto senza pensarci su fino a raggiungere la
borgata di Toceto dove abita il calzolaio e lascio detto a una signora di nome Tunitta che sto fuggendo
dagli alpini e sono ferito a un ginocchio.
Riprendo il cammino lungo una mulattiera che
conosco e che porta al Passo di Cento Croci. Ormai gli alpini non mi possono più prendere e mi
nascondo in mezzo alla sterpaglia aspettando qualcuno che passi per strada. Approfitto della sosta per
cercare di capire quando posso essere stato ferito;
forse è stata la bomba che mi è scoppiata vicino e
mi ha fatto cadere? Non so, potrebbe essere anche
una pallottola. All’improvviso mi prende un dolore
terribile al ginocchio e non sono più in grado di
muovere la gamba.
Dopo poco sento un rumore, vedo che è un parroco partigiano; tento di alzarmi ma non riesco. Allora lo chiamo; è in bicicletta, si guarda intorno ma
non mi vede.
Chiamo di nuovo dicendo che sono un partigiano
ferito e questa volta mi vede, viene e tenta di farmi
alzare. Fa tanto male che sembra mi strappino la carne, nulla da fare. Il prete racconta di aver sentito gli
spari e di essere venuto per vedere se c’erano morti
78
o feriti. Dice di rimanere nascosto, che manderà un
contadino che si sta recando al mulino per caricarmi. Quest’ultimo di lì a poco arriva, mi carica e mi
conduce a Tarsogno, paesino in provincia di Parma a
cavallo tra Emilia e Liguria. È di stanza qui il distaccamento delle Fiamme Verdi e vengo visitato dal loro
medico.
Guardata bene la ferita dice che sono stato molto
fortunato, in quanto il corpo estraneo si è conficcato vicinissimo all’arteria principale. Ritiene sia una
scheggia di bomba a mano, ma senza fare i raggi non
si può togliere, essendo in una posizione troppo delicata. Il suo consiglio è di rimanere a riposo in attesa
di poter essere ricoverato in un ospedale una volta
terminata questa guerra.
79
XVII
I nostri comandanti ritengono che in aprile vi sarà
la sortita finale di tutti gli anti-fascisti dell’Alta Italia
per dare il colpo definitivo ai tedeschi e ai fascisti.
Rimango a Tarsogno una decina di giorni, ma poi
non resisto più e chiedo di essere accompagnato alla
mia Divisione Coduri.
Un partigiano mi carica su un mulo e partiamo
per Valletti, accontentandomi.
Quando arrivo, Saetta mi getta le braccia al collo
e ci mettiamo a piangere tutti e due. Nella commozione generale il comandante si accorge che ho con
me il mitragliatore Bren e, meravigliato, mi informa
che di tutti i compagni sono l’unico ad averlo ancora.
Faccio presente che non è colpa loro, bensì mia che
li ho buttati fuori dal casone senza che avessero il
tempo di prendere le armi. Apprendo ora che non
vi è stato nessun ferito, sono tutti salvi e la felicità è
80
totale. Saetta spiega anche perché le sentinelle non
hanno dato l’allarme: era notte fonda quando all’improvviso si sono trovate gli alpini a pochi passi. Se
solo avessero fatto notare la propria presenza, non
avrebbero avuto vie di scampo.
Prosegue dicendo che per il sangue freddo, la determinazione ed il coraggio dimostrati in quella occasione, mi avrebbe proposto, terminata la guerra, per
una medaglia al valor militare.
Ora però non ho più tempo, ho solo voglia di
riabbracciare i compagni che sono a Ghiggeri, tutti quelli cioè che ho salvato da morte certa su al
monte Castello. Quando arrivo in groppa al mulo
corrono verso di me per aiutarmi a scendere. Mi
raccomando di fare piano, poi uno per uno ci abbracciamo commossi. Mentre li stringo tra le braccia li chiamo ciascuno con il loro nome di battaglia: Cid, Bufalo, Basea, Rosa, Paneatto, Bell’ami,
Palumbo, Bob, Bucin, Barba ed infine Bull. Manca
purtroppo il nostro Pesce.
Intanto alcuni notano il mitragliatore appeso al
basto, lo staccano ammirandolo e li sento dire che
è stato proprio quando ho sparato lunghe raffiche
dall’angolo del casone che gli alpini si sono disorientati, permettendo ad essi di fuggire.
81
Rimango con loro pochi giorni, in quanto il comando mi annuncia che verrò portato in un sanatorio, gestito da suore, adibito ad ospedale.
Siamo in aprile del ’45 e i vari gruppi partigiani
iniziano a scendere dai monti avvicinandosi alle periferie dei centri abitati, in attesa di attaccare in forze il
nemico non appena giunga l’ordine. Ormai fascisti e
tedeschi sono stretti in una morsa e quando tentano
qualche rastrellamento vengono ogni volta respinti.
82
XVIII
Il giorno dell’attacco finale arriva presto e tutte
le forze della Resistenza, aiutate dagli abitanti, si avvicinano ed infine conquistano i grandi centri della
riviera ligure.
La nostra Divisione Coduri in pochi giorni di combattimenti occupa il Tigullio, da Riva Trigoso a Sestri
Levante, da Lavagna a Chiavari, da Santa Margherita
a Rapallo.
Molti altri comuni e frazioni vengono liberati da
un’altra valorosa Divisione, la Cichero guidata dal comandante Bisogno.
Il 25 aprile 1945 l’esercito misto di tedeschi e
fascisti si arrende!
È la liberazione, è la fine di questa maledetta
guerra costata ai popoli oltre cinquanta milioni di
morti!
83
Interi paesi e città sono stati rasi al suolo da due
personaggi megalomani e maniaci quali Hitler e
Mussolini.
Noi feriti del sanatorio siamo in attesa che vengano a prenderci. Siamo stati curati da suore molto
buone e brave che ci hanno voluto bene.
Il 27 aprile arrivano le prime autolettighe militari
a prelevare i feriti più gravi; dopo caricano anche me
e mi ricoverano all’ospedale San Martino di Genova.
Il 2 maggio mi operano e tolgono dal ginocchio
destro una scheggia di bomba a mano, che ancora
conservo. La convalescenza prosegue per una decina di giorni, poi chiedo ai medici di poter rientrare
nel mio reparto, che ora è di stanza a Rapallo. Mi
accontentano, chiedo un po’ in giro se hanno visto il
comandante Saetta e mi viene indicato dove lo posso
trovare. Un incontro commovente, fatto di abbracci, di pacche sulle spalle, di gioia, felicità e racconti.
Ripercorriamo avvenimenti e battaglie ed è a questo
punto che mi dà una notizia tremenda.
L’ultimo giorno di combattimenti il mio inseparabile compagno ed amico Basea è stato preso da una
decina di briganti fascisti che lo hanno ucciso e fatto
a pezzi. Prima della ferita alla gamba io e lui eravamo
sempre insieme; inutile dirvi quanto dolore ho pro84
vato per questa atroce scomparsa. Proprio l’ultimo
giorno di battaglia, che destino crudele!
Continuiamo a parlare e chiede come va la ferita;
gli faccio vedere il cerotto nel ginocchio e la scheggia che ho in tasca e che mi hanno tolto. Al vederla
mi dice: «Per forza non riuscivi a camminare, con un
pezzo di ferro così nel ginocchio!». Rispondo che ho
avuto molta fortuna, all’ospedale ho visto partigiani
in condizioni pietose e menomati per la vita.
Chiedo come poter avere i documenti e lui prepara un tesserino sul quale appare un bellissimo timbro
con la scritta «Divisione Coduri». Ne sono molto fiero e ancora oggi lo tengo molto caro. È un documento che mostro a testa alta, che certifica la mia attiva
partecipazione alla lotta per la libertà del popolo italiano da venti anni succube della dittatura fascista. Ci
sono volute tre guerre, Africa, Spagna e quest’ultima,
dichiarata da Hitler e Mussolini insieme a un branco
di fanatici che volevano conquistare il mondo intero,
per chiudere questa nerissima pagina di storia.
Dopo aver tanto parlato con il mio comandante
gli comunico l’intenzione di tornarmene a casa in famiglia. Da quindici mesi non vedo i miei famigliari
e non abbiamo notizie gli uni degli altri. Quando mi
sono unito ai partigiani ho fatto il giuramento a me
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stesso di non far sapere ai miei nulla delle vicissitudini alle quali sarei andato incontro.
Vedendomi deciso, Saetta prende carta e penna e
dichiara chi sono e che mi reco a Molinella, provincia
di Bologna, per ricongiungermi ai famigliari. Più che
un lasciapassare è un vero congedo e mi dà anche
cinquemila lire che accetto molto volentieri. Se voglio rimanere, essendo stato ferito, mi offre pure la
possibilità di un lavoro al cantiere navale di Genova.
In questo momento rifiuto perché voglio rivedere i
miei genitori e i miei fratelli, penso alla loro felicità
quando mi presenterò a loro sano e salvo. Prometto,
in caso di difficoltà, di scrivere.
Ci salutiamo con un abbraccio, tra noi giorno
dopo giorno sono nati fiducia ed affetto. Tante volte
quando ha avuto bisogno di una persona fidata mi ha
scelto, ero il suo braccio destro.
Prima di partire voglio anche salutare la squadra e
mi dice dove trovarli. Sono in un albergo di Rapallo
e quando arrivo si stanno preparando per il pranzo.
Il primo che mi vede inizia a urlare: «C’è Camera, c’è
Camera!» ed arrivano le pacche sulle spalle e gli abbracci. Chiedono di rimanere con loro un po’ di tempo per poi partire tutti insieme ognuno alle proprie
famiglie. Insisto nel voler partire, ho già i documenti
e la strada da fare è tanta. Non vogliono che vada
86
via, dicono che abbiamo meritato una breve vacanza,
finalmente un letto normale, la doccia da poter fare
ogni giorno. È vero, ce lo siamo strameritato, così li
accontento e resto per un po’.
Essere liberi senza paura di rastrellamenti e imboscate sembra un sogno! Siedo a tavola con loro e
dopo aver mangiato e bevuto tutti a cantare Bella ciao
e altre canzoni partigiane. In albergo siamo spesati di
ogni cosa, in quanto come tutti gli altri del Tigullio è
sufficiente avere il bollino del nostro comando.
87
XIX
Ancora non ho fatto sapere nulla alla mia famiglia,
sto male pensando che anche loro sono in pensiero per
me. Non è un bel comportamento e mi sento in colpa,
avevo giurato di andare subito a casa e invece...
Qui con gli amici si sta benissimo ma ora basta,
preparo il mio zainetto, le poche cose personali che
ho, poi a malincuore abbraccio i compagni. Con la
promessa di rivederci presto mi incammino per Rapallo. Ad un incrocio leggo l’indicazione «Favale di
Malvaro» e prendo quella via dirigendomi verso l’interno ligure. Sono vestito con la divisa americana color cachi e sono anche felicissimo, ogni passo compiuto mi avvicina a casa.
Dopo pochi chilometri odo lo scoppiettio del
motore di una motocicletta, mi volto e noto che è
condotta da un militare vestito come me. Mi sorpassa
poi si ferma e mi domanda dove vado così, a piedi.
88
Rispondo che sto andando a casa; mi chiede dove
e dico: «a Bologna». Mi guarda stupito e si mette a
ridere: «per me sei matto!».
Racconto la partenza da Rapallo con la speranza di trovare un mezzo di trasporto che percorra la
mia strada; «sei fortunato», mi dice e spiega che si
sta recando a Reggio Emilia al Comando Militare per
portare ordini. Ferrovie, ponti e strade sono distrutti
dai bombardamenti e il mezzo più sicuro e veloce è
la motocicletta.
Questo militare è di Napoli ed è stato aggregato
all’esercito americano; fa cenno di salire sul sellino
posteriore e dice che viaggiare in compagnia sarà
meno noioso.
Ha una «bestia» di moto militare di marca BSA
con due serbatoi ausiliari di benzina da venti litri, uno
a destra e uno a sinistra.
Percorsi una trentina di chilometri arriviamo
all’imbocco di una zona militare segnalata da un
grande cartello. Vi è un posto di blocco e un po’ prima mi dice di stare fermo e zitto che al resto pensa
lui. All’alt dei soldati mostra un documento di riconoscimento; questi telefonano e poco dopo si apre la
sbarra. Una volta entrati l’amico motociclista si dirige
al distributore, riempie il serbatoio della moto e i due
laterali quindi ripartiamo.
89
Un altro po’ di strada e si ferma davanti ad un bar
dicendo: «Ora facciamo colazione, non ti preoccupare
che pago io». Al termine della stessa, infatti, si alza da
tavola, si reca a parlare con il proprietario del locale, poi
tutti insieme raggiungiamo la motocicletta. Napoli (così
lo chiamo) slega un serbatoio di benzina, quindi con il
barista entra in un magazzino e travasa il contenuto in
una botte di ferro. In questo modo abbiamo saldato il
conto! Faccio presente al portaordini di sentirmi in debito, ma risponde che gli americani sono ricchi di benzina e fino al termine del nostro viaggio mangeremo e
berremo facendo pagare il conto a loro.
Ripartiamo, per fermarci nuovamente al posto di
rifornimento successivo, quando ormai la benzina
inizia a scarseggiare. Fatto il pieno, dopo un po’ ci
fermiamo in una trattoria ed anche qui paghiamo nel
solito modo.
L’ultima parte del nostro viaggio ci porta prima a
Parma quindi a Reggio Emilia, dove Napoli, al Comando Militare, consegna i documenti terminando
così il suo viaggio.
Appena si libera andiamo a cena in un albergo e
prenotiamo due camere con bagno.
Alle sei il cameriere viene a svegliarci, consumiamo la colazione e saldiamo il conto come sempre.
90
È il momento dei saluti, non so come ringraziarlo, un viaggio veloce, piacevole e senza spendere una
lira! Della nostra vita ci siamo raccontati tutto, lui
dice di essersi trovato molto bene con me e che questo viaggio, appena finita la guerra, di certo non lo
scorderemo più nessuno dei due. Il nostro è stato un
bell’esempio di collaborazione tra un partigiano e un
italiano aggregato all’esercito americano. In comune
un unico fine: «pace e libertà». Ciao «Napoli», ciao
«Bologna», e ci lasciamo con un abbraccio.
Lo guardo partire con la sua bestia mentre io attendo un altro mezzo di fortuna che mi porti a Modena o a Bologna.
In strada vi è un gruppetto di persone al quale mi
aggrego e dopo poco arriva un autocarro diretto a
Modena che dietro nostra richiesta carica tutti. Giunti in città, trascorsa una mezzoretta saliamo in sei o
sette su una corriera diretta a Bologna. Alla Stazione
Centrale chiedo quali mezzi di trasporto ci sono per
arrivare a Budrio o a Molinella. Mi dicono che i tedeschi in ritirata hanno fatto saltare quasi tutti i ponti,
per cui la bicicletta sarebbe il mezzo più idoneo.
Cerco un bar, prendo un panino e una birra e decido di partire a piedi. Le gambe sono superallenate
dopo tanto camminare lungo i sentieri dei boschi.
91
Mi sento già a casa anche se mancano trentacinque
chilometri. Sento la vicinanza della famiglia e ho le
ali ai piedi. Immagino quando si sentiranno chiamare
e riconosceranno la mia voce dopo quindici mesi di
guerra senza mai notizie!
Avrò in seguito conferma di quanto abbia fatto
bene a non fornire mie notizie. Carabinieri e fascisti
molte volte si sono recati a casa dai miei minacciandoli per sapere dove fossi! Mio padre e mia madre
rispondevano di non saperlo: «voi lo avete mandato
in Germania e voi siete responsabili della sua sorte!».
Ma ora sono qui, a pochi chilometri da casa. Sento
il cuore che batte sempre più forte e al posto delle
gambe mi sembra di avere due molle! Ecco Villanova
di Castenaso e non sono per niente stanco. Strade
e scorciatoie le conosco molto bene e in un attimo
giungo alla borgata Riccardina, vicino a Budrio e a
Mezzolara.
Cammino sempre più in fretta per evitare il buio.
Ad un tratto sento il rumore di una bicicletta nel ghiaietto. Alla guida mi pare di riconoscere una persona
del mio paese, mi sorpassa poi si ferma. Chiede se
per caso sono il figlio di Armando Zagni, rispondo
di sì ed in quel momento lo riconosco.
È una persona sfollata a Bologna e rifugiatasi a
casa di un nostro vicino; il suo nome è Arturo Lizzi.
92
Mi abbraccia e io ricambio. Parliamo un po’; racconta che lavora a Bologna per cui ogni mattina si alza
all’alba per farsi questi trentacinque chilometri e la
sera se li rifà per tornare a casa. Finita la chiacchierata
riparte dicendo che avvertirà a casa mia per dire loro
di venirmi incontro con due biciclette. Le gambe ora
si alleggeriscono ancora di più, mi mancano solo un
po’ di ali e potrei prendere il volo.
Quando sono a Guarda scorgo in lontananza due
bici che sopraggiungono a gran velocità. Ad un tratto
li riconosco, sono mio padre e mio fratello più giovane, Loredano. Quando mio padre è a pochi metri
da me, non rendendosi ben conto della distanza che
ci separa, spalanca le braccia lasciando il manubrio
della bici. Intuisco immediatamente il pericolo di una
caduta rovinosa e gli corro incontro abbracciandolo
e sostenendolo di peso.
Restiamo così, abbracciati in mezzo alla strada, la
bici a terra.
Piangiamo come bambini e a noi si unisce mio
fratello. Non so per quanto tempo rimaniamo lì così.
Per prima cosa mio padre mi sgrida per non aver
dato mie notizie per tanti mesi. Spiego allora di aver
giurato di non far sapere niente per salvaguardare la
loro incolumità e solo una volta giunto a casa avrei
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gridato: «Sono qui, mi sono salvato!», pensando nello stesso tempo a quanti non avrebbero potuto fare
altettanto.
Giunti vicino al paese la voce del mio ritorno si
sparge e davanti alla nostra abitazione si forma un
capannello di persone.
Mi presento con la divisa americana e il fazzoletto
rosso al collo, tutti vogliono sapere dove sono stato
e che cosa ho fatto. In breve racconto la mia storia di
partigiano e la mia lotta per la libertà, un bene senza eguali. Terminati i baci e gli abbracci grido forte:
«Mai più guerra! Viva la pace e la libertà!».
In quel momento ognuno di loro applaudì, ma
oggi?
Era il giorno 29 maggio 1945 ed avevo diciannove
anni e cinque mesi.
Per non dimenticare
Zagni Erminio Sergio
«Camera»
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Chiavari, aprile 1945. Sfilata della Brigata garibaldina di manovra Longhi,
guidata da Paolo Castagnino «Saetta», durante la liberazione.
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La stella rossa, riconoscimento della Divisione Coduri; la saetta, emblema
della Divisione; infine la scheggia di bomba a mano estratta dal ginocchio
di «Camera» il 2 maggio 1945.
Passo del Bocco Colonia, 1988. Fondazione Antonio Devoto, adibita a sanatorio per i partigiani feriti gestito dalle suore di Chiavari.
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Biglietto di degenza datato 10 maggio 1945, che attesta la ferita al ginocchio
riportata da Sergio «Camera».
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Monte Castello 1978. Rudere del casone, teatro dello scontro con gli alpini.
Durante la fuga «Camera» venne ferito da una scheggia di bomba a mano
[Capitolo XVI].
La Gattea Valletti, 6 ottobre 1996. Paolo Castagnino «Saetta».
98
Genova, 7 agosto 1947. Proposta per la concessione di una medaglia
di bronzo da parte del Comando della Divisione Coduri.
99
Foglio di congedo illimitato concesso per essere stato partigiano (p. 1).
100
(Idem, p. 2)
101
Foglio di congedo illimitato concesso per essere stato partigiano (p. 3).
102
(Idem, p. 4)
103
Autorizzazione al ricongiungimento con la Brigata Coduri, dopo il ricovero
in ospedale.
Chiavari, 11 maggio 1945. Foglio di licenza.
104
Proposta di riconoscimento per avere preso parte alla lotta partigiana.
105
Documento inviato dal Ministero dell’Assistenza Post-bellica come risposta
alla richiesta di riconoscimento (p. 1).
106
(Idem, p. 2)
107
Fronte e retro della Tessera Partigiana n. 770 di Sergio Zagni «Camera».
108
La Gattea di Valletti, 6 ottobre 1996. Violetta e Sergio «Camera» durante
l’inaugurazione della stele in memoria dei partigiani caduti.
109
«Camera» durante le celebrazioni per il 25 aprile 2009. La memoria
dei partigiani è ancora viva.
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Indice
Prefazione
Introduzione
Capitolo I Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
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